martedì 13 aprile 2010

Chi fabbrica la cultura di massa

Repubblica — 10 aprile 2010 pagina 35-36-37 sezione: R2
NEW YORK A PRIMA guerra mondiale della cultura è già scoppiata. E, questa volta, non c' è nessun asse del male (o del bene) che tenga. È l' America contro tutti. E tutti contro l' America. Sì, il Mainstream, la cultura dominante, non è più born in the Usa. Il fuoco non brucia più (solo) qua. Bollywood contro Hollywood. L' Asian Pop contro Billboard. Le telenovelas brasiliane contro Friends. E la Cina, ah la Cina, che replica e riciccia tutto: mandarino style. Il grande risiko è ancora tutto da giocare. E un sociologo francese, Frederic Martell, lo spiega in un libro chiamato senza mezzi termini Mainstream, inchiesta sulla cultura che piace a tutti. OVE attraverso 1250 interviste certificate e un' impressionante raccolta di dati sostiene che la cultura principale non c' è più, che i padroni del mondo della parola scritta, dell' immagine e della musica non stanno più in America. E dove allora? Fosse semplice. «Una delle scoperte di questa inchiesta» dice Martell al francese Les Inrockuptibles «è la complessità di questi scambi. In realtà, la globalizzazione non eclissa le culture nazionali, che restano comunque forti dappertutto. Ma la potenza americana ha finora impedito la possibilità di imporsi alle altre culture: fosse quella panaraba, panasiaticao europea». E adesso chi glielo spiega agli americani? Questo popolo che deve il nome a un italiano è così convinto di essere, da sempre, al centro del mondo, che perfino un intellettuale per niente sciovinista come Jonathan Lethem ha cancellato l' Europa dalla sua breve storia del cinema. Bye Bye fratelli Lumière. Fu tutta una questione interna: Thomas Alva Edison che ruba l' idea di Eadweard Muybridge. Così, almeno, giura l' autore della Fortezza della solitudine in quella monumentale antologia che è la New Literary History of America messa su da Werner Sollors, professorone ad Harward, e Greil Marcus, il più grande critico di musica e pop culture d' Oltreoceano. Per carità. La cultura mondiale è stata davvero americana per una vita. Diventeremo tutti canadesi? Così si domandava Tom Perlumetter già una ventina di anni fa. Il Canada, si sa, è provincia culturale d' America: stessa lingua, confine labile, stesso ceppo immigratorio. La prima barriera è caduta lì: l' americanizzazione da quel momento in poi è diventata un incubo. Per tutto il resto del mondo. Come? In principio, si sa, ci sono il cinema e la televisione. Nel 1934 il film record d' incassi nell' Italia fascista è La febbre dell' oro, 4 milioni di biglietti. Attilio Bertolucci ha smesso da poco i pantaloni corti ma quando esce dal cinema, nella sua Parma, piange come un bambino ripassando mentalmente lo sguardo di Charlie Chaplin. Suo figlio Bernardo, mezzo secolo dopo, sarà premiato con l' Oscar a Hollywood. Ma oggi: funziona ancora così? La storia sembra ripetersi. Il cinese Ang Lee racconta l' America come pochi altri, dai fumetti di Spider Man agli amori gay tra i cowboy di Brokeback Mountain. Ma questa non è la guerra mondiale della cultura: al contrario, sarebbe la prova che la globalizzazione, che in fondo nasce con l' immigrazione, funziona sempre in quel modo lì: alla fine vincono sempre i migliori, cioè gli americani. O no? Non solo. Dati alla mano, Martell dimostra che il primo mercato d' esportazione per il Brasile non sono, come ti aspetteresti, gli Stati Uniti, ma l' Europa dell' Est, Romania in testa. E i giapponesi che il luogo comune culturale vede yankees-dipendenti hanno invece una vera e propria passione per i "tv dramas" degli ex nemici giurati, i coreani: accomunati in questo, a sorpresa, da indonesiani, cinesi di Taiwan e, udite udite, iraniani. E nella musica? Se prendete l' hit parade di Hmv a Hong Kong, questa settimana, troverete il maestro del musical londinese Andrew LLoyd Webber, l' electrodance degli Oliva e il fumettopop dei Gorillaz. Ma rispettivamente al terzo, quartoe quinto posto. Ai primi due brillano Eason e Kelly Chan. E non è solo questione di giocare in casa. La band più popolare nella Malesia musulmana sono le She: tre cinesi di Taiwan incoronate dal "Grande Fratello" locale che cantano e ballano (quasi) meglio delle Destiny' s Child e mixano il vecchio pop di Shangai con il rap del Bronx e un pizzico di Mozart... Sì, il sonno della globalizzazione può anche generare mostri. Ma il mondo culturalmente senza centro è una condanna o una benedizione? «Le grandi barriere che dividono il mondo, oggi, non sono questione di principi, ma di gusti». Sapete chi parlava così? E soprattutto quando? Il presidente degli Stati Uniti. Woodrow Wilson, però. Il 10 luglio del 1916, in quel celebre discorso che lanciò «la democrazia degli affari d' America», in cui invitava il suo popolo alla «lotta per la conquista pacifica del mondo»: ottant' anni prima che Joseph Nye coniasse quel concetto di "soft power" con cui gli Stati Uniti avrebbero potuto riconquistare il mondo. Il declino dell' imperialismo economico ha segnato anche quello culturale? La verità come sempre è più complicata, dice Victoria De Grazia, che nell' Impero Irresistibile ha raccontato «la società dei consumi americani alla conquista del mondo». «Certo la globalizzazione ha cambiato i canali di distribuzione predominante: ma quanto capitale finanziario americano c' è sui mercati indiani o cinesi? E viceversa, naturalmente». Ieri Wilson, oggi Obama. «Obama è l' espressione di questo paese che non riesce più a imporsi. Ma per la sua formazione è anche l' espressione di un' America culturalmente molto più ricca di quello che crede di essere», dice de Grazia dalla sua cattedra alla Columbia University. Ma un cicloè finito o no? Addio all' American Mainstream? «L' America ha dato un segno in un determinato momento storico: era avanti in tutto, tecnologia, finanza, perfino lo slancio culturale di una generazione intrisa di patriottismo». E oggi? Oggi Steven Spielberg ha deciso di produrre i suoi kolossal con una corporation che si chiama Reliance Enterntainment. Ok, lo sanno tutti: non è Hollywood, ma Bollywood. Pochi sanno però dove Bollywood è nata: in Egitto, mica in India, dove i registi giravano a basso prezzoe rubarono, dal mondo arabo, la moda dei canti e dei balletti. Gli americani si arrendano: nel risiko della cultura c' è una mossa per tutti.
ANGELO AQUARO

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