lunedì 26 aprile 2010

"I gatti persiani". Un film racconta la meglio gioventù iraniana

Nella sua ultima opera il regista Bahman Ghobadi descrive la generazione di Neda e della rivoluzione verde. A ritmo di rock

Boris Sollazzo
Qualcosa, forse, è veramente cambiato. Eravamo abituati a cineasti iraniani simili a sfingi sornione, che giravano film (e parlavano) per poetiche metafore. «Lo facevo anche io, andavamo nelle zone periferiche del paese - quelle dei cittadini di secondo o terzo livello come me che sono curdo e pure sunnita - e parlavamo di bambini e vecchi, di vita e di morte. E da avanguardia siamo diventati ripetitivi, e il cinema iraniano rischia di scomparire». A parlare è Bahman Ghobadi di Teheran, uno che le metafore le ama eccome, ma per essere più diretto che con le frasi normali. E lui è il regista de I gatti persiani (nelle sale italiane, in 40 copie per Bim), uno spaccato giovanile iraniano di grande forza e coraggio. «Nel vostro Iran non ci riconosciamo. L'Iran è una bella ragazza - non dimenticate che Iran è un nome da donna, è il nome di mia madre - velata da uno chador e che indossa grandi occhiali coprenti. Noi con questi film dobbiamo svelare il vero volto del nostro paese: quello degli artisti e dei giovani che vogliono fare musica, per esempio, quello vitale e pieno d'energia. Quello che rifiuta i muri che proibiscono l'arte, l'amore, il sesso. L'Iran è uno splendido paese, che amo. Così come Teheran è una città unica. E sono nostre, di chi viene cacciato dal regime o costretto a fuggire, non di chi ci imprigiona o ci fa andar via, del clero o della politica nucleare».
Minuto, determinato, appassionato, un velo di tristezza passa su di lui parlando del collega Panahi. «Ho paura che possano spezzarne l'animo, ucciderne l'arte. Lui è molto sensibile e l'esperienza della prigione in Iran molto dolorosa. Io stesso, dopo aver presentato il film a Cannes (con successo di pubblico e di critica - ndr) sono rientrato nel mio paese dal Kurdistan, sperando di non essere intercettato. Ma mi portarono in cella, dal 2 al 9 giugno scorso. E anche la mia compagna, e cosceneggiatrice, ha subito la stessa sorte. Artisti e giovani fanno paura, non permettono un controllo totale della società».
Insiste sui giovani, pensando a quei ragazzi, ora fuori dal paese come lui, che ha seguito nel suo bel film. «Anche se non si parla mai del valore artistico del mio lavoro, perché il dramma è anche questo: nel nostro paese l'arte è costretta ad essere politica». Ghobadi segue una delle 3000 band di rock underground che suonano clandestinamente nella capitale, in studi ricavati, con isolamenti di fortuna, in mansarde o stanzette. Pedina il motorino di Nader, alla ricerca di nuovi componenti, di passaporti per espatriare, di giovani artisti con cui confrontarsi. «Vogliono esprimersi e raccontarsi, molti che non ci riescono così, anche a causa dell'enorme disoccupazione, si danno all'alcol e alla droga».
Ghobadi racconta della lavorazione «piena di stress, urgenza, passione, preoccupazione: quella che si sente nel film, perché nulla è falso o inventato per romanzare, e quella che avevamo noi addosso. Sapevamo che poi saremmo dovuti andar via, che non avremmo lavorato a lungo nel nostro paese, ma volevo lasciare qualcosa prima di farlo». E ricorda, soprattutto, «quel fermento che poi sarebbe esploso dopo le elezioni. Lo sentivamo, abbiamo girato cinque o sei mesi prima della rivoluzione verde». E nonostante il dolore e la nostalgia - vive e lavora, ora, tra Iraq, Germania e Usa - è ottimista. «Con Khatami ci fecero illudere. Giocammo in un campo di calcio pieno di polvere, ci presero in giro, ci accecarono. Ora i nostri ragazzi hanno respirato per un secondo, dopo che la mano forte del regime aveva loro tenuto la testa sott'acqua. E ora gliel'hanno rispinta dentro. Ma sanno che respirare è possibile, che quella mano non è più così forte. Io conto di tornare in tre-quattro anni in un paese diverso. E ora mi chiedo: rimanere fuori, organizzando un festival e un workshop in Iraq, producendo due giovani registi iracheni, lavorando al film che mi censurarono per tre anni in Iran, 60 secondi di te e di me , sulla pena di morte, essere testimone e ponte per raccontare la mia patria, o tornare e farmi mettere in carcere, lottare come fa Panahi? E' una scelta difficile. Comunque so che dopo tanta censura, e anche autocensura - che fanno sì che il 90% della cultura iraniana sia clandestina o sconosciuta - ora voglio essere un rivoluzionario, un militante del cambiamento».
E così I gatti persiani è qualcosa di più del bellissimo film che vedrete, della musica inaspettata e trascinante che sentirete. Di quella regia e di quelle location che il cinema iraniano non ci ha mostrato (quasi) mai. Non è solo un'opera intensa, implacabile in quel finale angusto, piena di ritmo ed emotività mai retorica. E' anche una fotografia della nuova generazione di fenomeni iraniana. Di una meglio gioventù che non vuole farsi piegare. Di giovani che «come gatti persiani sono sensibili, e come loro non possono essere liberi nel nostro regime. Ma che sanno graffiare». E Ghobadi si è riservato i diritti del film per l'Iran. «Così posso diffonderlo lì, gratuitamente e illegalmente, ovvio». Ovvio.

Liberazione 25/04/2010, pag 14

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