lunedì 26 aprile 2010

Nelle Filippine l'altra vita delle nostre colf

di PAOLA ZANUTTINI

MANILA - Quattro ore a sud di Manila, nella provincia di Batangas, c'è Pulong Anahao, meglio noto come Villaggio italiano. L'architettura non c'entra niente, queste villette leziose e colorate non assomigliano alle nostre, però sono italiani i soldi con cui sono state costruite, perché Pulong Anahao e tutta la provincia sono la prima centrale di emigrazione del lavoro domestico filippino verso Roma, Milano e le altre città del nord. Vengono quasi tutti da lì i novantamila filippini, in prevalenza donne ( 63 per cento) che vivono e lavorano in Italia.

Occupandosi delle nostre case sono riusciti a costruirsi le loro. Hanno anche fatto studiare i figli e garantito alle loro famiglie un benessere altrimenti impossibile, visto che lo stipendio di un laureato a Manila equivale a 240 euro e quello di un lavoratore non qualificato non arriva alla metà.

Nelle Filippine, per un decimo della popolazione, cioè per nove milioni di persone, l'emigrazione è l'unica possibilità. Dopo indiani, cinesi e messicani questo è il popolo che emigra di più, presente in 190 paesi, senza considerare i mari, dato che un terzo dei marittimi mondiali è costituito da filippini.

Il grande impulso a questa diaspora si deve all'ex presidente Ferdinando Marcos che, negli anni Settanta, diede così ossigeno all'economia comatosa e si levò di torno comunisti e scontenti. Ma oggi l'economia filippina non può fare a meno degli emigrati: il 14 per cento del Pil dipende dalle loro rimesse, prima fonte di valuta pregiata. Quelle bancarie del 2006 ammontano a 16 miliardi di dollari. E ora che riaprono le scuole, con tutti i soldi arrivati per le iscrizioni, il dollaro è sceso di tre punti.

Tutto questo denaro non è riuscito a costruire le condizioni che permettano agli emigrati di tornare: la maggior parte progetta di farlo dopo pochi anni ma poi sta via una vita. Quasi nessuno è capace di investire i guadagni all'estero in un business a casa.

Le Ong si impegnano nel formare al risparmio e all'impresa gli emigrati, il governo molto meno. E partire resta il primo sogno di ogni giovane filippino: svende lauree e diplomi conseguiti grazie al lavoro all'estero dei genitori, per andare a svolgere le stesse mansioni: colf, operaio, tutt'al più tecnico. Solo poche fortunate, il 4 per cento, riescono ad essere assunte come infermiere, ma succede prevalentemente negli Stati Uniti, nella Penisola Arabica e in Inghilterra.

Se, da fuori, e case di Pulong Anahao non assomigliano alle nostre, dentro l'Italia si riconosce, eccome: la stessa aria di sogno realizzato che c'era nel salotto incellofanato dei nostri emigranti. Che tornavano solo ad agosto ma investivano tutto sulla casa per dimostrare a chi restava quanto valeva la loro fatica nelle miniere belghe o alle catene di montaggio tedesche.

Le macchine in garage, le cucine superaccessoriate, i simboli del benessere nascondono però un malessere sempre più diffuso. L'emigrazione sta minando le famiglie, che restano il cardine della società filippina. Dice Mai Añonuevo, presidente della Ong Atikha, che si occupa degli emigranti e dei loro familiari: "Le donne partono e i mariti non sanno cambiare ruolo. I bambini sono quasi sempre affidati alle nonne e alle zie materne o alle figlie più grandi che, a dieci anni, si accollano la responsabilità. Molti uomini lasciano il lavoro, il confronto con lo stipendio della moglie li umilia. Alcuni risolvono la solitudine con altre donne. O con l'alcol".

Anche che i bambini left behind, lasciati indietro, non beneficiano poi tanto della ricchezza procurata dai genitori lontani, per i quali sviluppano spesso un rancore inespresso: "La migliore delle zie o delle nonne non vale una mamma" sentenzia Leona Hernandez, 59 anni, che ha otto fratelli e cinque figli su sette emigrati in Italia. "Ho solo un nipote e sono contenta che lo tengano con loro. I bambini lasciati, a cui mostriamo sempre le foto dei genitori per evitare che non li riconoscano quando tornano, vanno incontro ad alcol, droga, cattive compagnie, matrimoni affrettati".

(7 giugno 2007)

http://www.repubblica.it/2007/04/sezioni/cronaca/venerdi-994/venerdi-1003/venerdi-1003.html?ref=search

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