lunedì 26 aprile 2010

Sono i nuovi proletari. Senza di loro l'Italia si fermerebbe

Un libro-inchiesta di Riccardo Staglianò, da nord a sud i lavori che gli italiani non fanno più

Tonino Bucci
Capo, ma perché la macchina me la lava er negro ? La diffidenza si legge in faccia, il proprietario della Bmw storce il naso nell'immaginare la sua automobile sotto le mani di un bangladese. Nella stazione di benzina Q8 di via della Bufalotta, periferia di Roma, lo scenario è come altrove. La presenza di un senegalese o pachistano o bangladese che sia, in tuta accanto a una pompa di carburante, è un'immagine ormai usuale. Nella sola area di Roma e del Lazio almeno un terzo degli addetti è straniero. Ma nelle stazioni più grandi, per ogni quattro-cinque dipendenti un paio sono spesso "extracomunitari". Un lavoro troppo umile, e anche faticoso. Tirar via in piedi tutto il giorno, col freddo o con l'afa agostana, non è mica uno scherzo. Sarà per questo che gli italiani lo evitano. Ma se ne potrebbero elencare tantissimi altri, di mestieri che ormai accettano solo i disperati della gerachia sociale, gli sconfitti nella guerra tra poveri. I pescatori tunisini a Mazara del Vallo, i camionisti discount che vengono dall'Est, i sikh che allevano bufale per la mozzarella, gli addetti alle pulizie, le colf salv-famiglia, i raccoglitori di pomodori, i nigeriani conciatori di pelle al nord-est, gli egiziani pizzaioli. E poi, ancora, addetti alla lavorazione dei polli in quel di Verona o alle fonderie nel bresciano, panettieri, infermieri, facchini, cuochi, lavapiatti. E per finire calciatori, preti e prostitute. E' frastagliata, articolata, in gran parte ancora da disegnare la mappa dell'Italia che senza gli stranieri si fermerebbe all'istante. La descrive, con stile da inchiesta, Riccardo Staglianò, giornalista di Repubblica e autore per l'appunto, di Grazie , sottotitolo Ecco perché senza gli immigrati saremmo perduti (chiarelettere, pp. 228, euro 14,60).
Stereotipi, cliché, rappresentazioni caricaturali, fobie, razzismi: la fabbrica dell'immaginario sforna sulla testa degli immigrati una quantità di immagini virtuali che impedisce un racconto del paese reale. Lo dimostra il viaggio di Staglianò per la penisola, il contatto con le situazioni di vita e di lavoro degli stranieri. La presa diretta con la realtà basta a sconfessare la narrazione-tipo sugli immigrati prodotta in questi anni dalla «fabbrica della paura». «Se poi la congiuntura è calamitosa, come quella in cui viviamo, con il naufragio della classe media, la scomparsa del posto fisso e le infinite altre precarizzazioni tipiche della "società del rischio", l' upgrade della paura in terrore non deve sorprendere». Il girovagare per l'Italia ci porta, ad esempio, a Nogarole Rocca, tre quarti d'ora d'autobus da Verona. A due chilometri dal paese, irraggiungibile con i mezzi pubblici, sorge uno stabilimento per la lavorazione dei polli. Campagna, svincoli autostradali e poi strade strette dove si incrociano tir e trattori. «Già dalla hall, con i divanetti verdi démodé su cui nessuno si siede mai, laroma dolceamaro ti stuzzica il naso. E' solo un'avvisaglia, un antipasto sensoriale». In America un giornalista del Wall Street Journal ci ha vinto il Pulitzer solo a raccontare quanto facca schifo questo lavoro. A cominciare dall'odore che «ti si insinua nelle narici» e dal «pigolare terrorizzato di polli e tacchini» avviati al patibolo. La nausea «ti riempie gli occhi quando vedi per terra gli spruzzi di sangue sgorgati dalle loro viscere». Se c'è Aia c'è gioia , recita lo slogan pubblicitario. In organico il 43 per cento sono immigrati: 168 nigeriani, 60 ghanesi, 42 marocchini, più uomini e donne di altre 28 nazionalità per un totale di 412 persone. «Che prima combattono per indirizzare le bestie vive alla loro via crucis e poi le sigillano, morte, in asettiche buste sottovuoto, sub specie di petti, cosce e ali». Il problema è che lungo la linea di produzione (una vera catena di montaggio) possono succedere degli incidenti per via delle incomprensioni di lingua. «Anche perché tra un kosovaro e un coreano non sanno da dove cominciare per spiegarsi a parole». Molti di loro sono disposti a farsi ogni giorno anche sessanta chilometri col motorino. Ghanesi e nigeriani, poi, sono ricercati per la prestanza fisica che li «rende indicati all'attacco dei tacchini, i cui esemplari maschi arrivano a pesare sui 20 chili», racconta un responsabile della direzione. Si alternano su due turni, di sei ore e quaranta ciascuno, sei giorni su sette, per 1200-1300 euro che con gli assegni familiari possono arrivare a 1500. Il primo anello della catena consiste «nel tirare fuori le bestie vive dalla gabbia di plastica in cui sono arrivate dagli allevamenti e avviarle alla loro sorte». Dapprima fanno passare le bestie in una zona illuminata da una luce blu che ha la funzione di sedarle. I tacchini vengono fatti passare per un cunicolo metallico nel quale viene pompata anidride carbonica per stordirli. I polli invece vengono tramortiti spingendoli in una vasca d'acqua con una modesta scarica elettrica. «A quattro metri da terra, nei condotti sovraffollati di tacchini, cadono addosso ai lavoranti delle piume solitarie. Ma anche le secrezioni degli animali, come se qualcuno si divertisse a sputare dal terrazzo. E poi scaglie della loro pelle, pezzi di mangime, batteri. Qui l'odore è più dolciastro e intenso. Gli addetti si spruzzano in continuazione la faccia e la tuta con un getto di aria igienizzante». Il settanta per cento è assunto a tempo indeterminato, il resto con contratti da sei o nove mesi, come gli avventizi agricoli utilizzati a seconda delle stagioni per la raccolta dell'uva e dei pomodori. Quest'ultimi sono stati i primi a saltare durante il periodo dell'aviaria.
Altra regione, altro lavoro. La Sicilia conta quanto metà dell'industria ittica italiana. Mazara del Vallo pesa da sola mezza Sicilia. «Negli anni Settanta si stava in mare una settimana, poi sono diventate due, e negli anni Novanta le cose hanno cominciato a peggiorare ancora e ad allungarsi le bordate. Oggi si devono fare anche quattro-cinque giorni di navigazione, arrivare sino a Cipro o in Grecia, prima di gettare le reti. Perciò, per ammortizzare i costi di gestione, si deve stare fuori più a lungo», racconta l'assessore provinciale alla pesca Nicola Lisma. Bisogna spingersi sempre più al largo alla ricerca, per esempio, del gambero rosso, esportato in mezzo mondo. Novanta giorni in mare, chi accetterebbe un lavoro del genere? «Gli italiani l'hanno capito prima e hanno lasciato che i tunisini li sostituissero. Sui pescherecci sono ormai la maggioranza». Senza di loro si fermerebbe tutto. «Questo è un lavoro che, se l'hai fatto, non lo auguri neppure al tuo peggiore nemico», figuriamoci ai figli - dice Bazine che ha smesso da qualche anno. Benur, invece - cinquantatré anni induriti dal sole e dal salmastro - lo fa ancora. Però «sono sei mesi che l'armatore non mi paga. L'ho denunciato ma sin qui non è successo nulla».A bordo, durante i novanta giorni, non c'è tregua. Bisogna congelare il pesce e «nel congelatore entri sudato come sei in coperta, perché non c'è tempo per asciugarsi, vestirsi di più. Risultato? Quegli sbalzi di temperatura mi hanno fatto saltare un bel po' di denti, ho il diabete, la pressione alta, anche i reumatismi e la bronchite cronica». Il cibo non manca, ma è per dormire che non c'è mai tempo. Come ad Abu Ghraib. Adesso ci stanno provando con i ghanesi «ma ne funziona uno su mille. Non reggono quei ritmi - dice ancora Bazine - e alla sette si lavano le mani e si ritirano in cuccetta». Dopo i ghanesi, in basso nelle gerarchie, ci sono solo i clandestini.
Dal mare alle autostrade. Anche qui c'è una guerra tra poveri. I camionisti low cost dell'Est, capaci di guidare anche quaranta giorni senza mai prenderne uno di riposo - hanno sbaragliato la concorrenza. I riposi segnati sul foglio presenze sono falsi. Finte sono anche le ferie, tanto per dimostrare, in caso di controlli, che ci è riposati a sufficienza, come vuole la legge. A queste condizioni resistono solo gli stranieri. «Nelle grosse compagnie, soprattutto nel nordest che fu patria dei camionisti nostrani, sono ormai maggioranza». Maggioranza sono pure i raccoglitori di mele a Rallo, Tassullo, Taio, Tuenno, le stazioni della raccolta di mele in Trentino. I primi ad arrivare sono stati verso la fine degli anni 80 quelli della ex Jugoslavia, poi è stata la volta dell'est, oggi arrivano da tutti i paesi.

Liberazione 20/04/2010, pag 12

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