mercoledì 7 settembre 2011

"Questione morale" e politica comunista

Raul Mordenti
A trent'anni dall'articolo di Enrico Berlinguer sulla "questione morale", Il Fatto Quotidiano ha ripubblicato quel testo aprendo un meritorio dibattito sul tema (in verità anche Dino Greco aveva ripubblicato, tempo fa, su Liberazione il testo berlingueriano).
La questione è resa oggi attualissima non solo dalla natura del berlusconismo ma anche dai casi Penati e Vendola-don Verzé. Particolarmente significativa la dichiarazione di Piero Fassino, il quale ha ricordato le dure reazioni suscitate nel Pci dalla posizione di Berlinguer, accusata al tempo dalla destra migliorista di una deriva "anti-politica" e, soprattutto, di rendere impossibile l'alleanza con Bettino Craxi. Non solo Fassino dà oggi del tutto ragione a quelle critiche, ma si spinge più lontano, affermando senz'altro che «in politica non esiste il concetto di colpa».
Sarebbe troppo facile prendersela con questo Nietzsche in bagna cauda, e ricordargli i suoi errori-colpe (il suo sostegno della Tav è - ad esempio - sia un grave errore che una imperdonabile colpa); ma una tale posizione, francamente anti-berlingueriana e filo-craxiana post mortem, sembra preferibile rispetto a chi evoca con il ciglio umido di commozione quel Berlinguer, però riducendolo alla sola sfera "morale", intesa come sfera personale. E invece la "questione morale" - che per Berlinguer come per noi è tale da mettere in pericolo la stessa democrazia - non si può ridurre al problema di qualche "mariuolo" né ai difficili rapporti del gruppo craxiano (oggi, non per caso, berlusconiano) con il VII comandamento.
Oggi nel sentire comune delle masse (che Gramsci ci insegna a tenere sempre nel massimo conto) è l'intera politica ad essere coinvolta e travolta dal disprezzo; al punto che, perfino di fronte alla macelleria sociale dell'ultima Finanziaria, ciò che appare alle masse assolutamente intollerabile non sembrano tanto i soldi tolti da salari, pensioni, sanità e scuola per finire nelle tasche della grande borghesia, quanto i privilegi della "casta" protervamente confermati.
E allora occorre (come sempre quando si evoca la morale) parlare anzitutto di noi stessi. La domanda cruciale che dobbiamo porci è la seguente: siamo noi comunisti percepiti come assolutamente alternativi, o quantomeno decisamente estranei, rispetto alla "immoralità" della politica? La risposta temo debba essere negativa, perché la nostra diversità comunista è stata gravemente appannata, sia da alcuni comportamenti passati (non sufficientemente combattuti né tempestivamente corretti) sia dalle ricorrenti scissioni. Ma le scissioni e i personalismi (che spesso le causano) presentano una caratteristica assai strana: ammesso che siano un crimine (ma sono solo una colpa politica), sono un crimine la cui condanna ricade, nella percezione popolare, più sulla vittima (in questo caso il Prc) che non sui colpevoli. (...) Per contrastare questa percezione bizzarra (ma perniciosa) dovremmo proporre di noi un'altra narrazione (per usare una parola di moda): cioè dire di un Prc che a Chianciano ha saputo scegliere ostinatamente la sua fedeltà alla classe e alla lotta di classe, che ha saputo autocriticare e correggere in base a tale scelta gli errori di una sua fase "istituzionalista", che ha accettato di pagare per questo suo coraggio un prezzo altissimo in termini elettorali, di visibilità mediatica e di finanziamenti; di più: un Partito che non si è limitato a "resistere" ma ha saputo anche avviare un processo ricompositivo con la FdS.
Dovremmo essere tutti/e convintamente fieri di tutto questo. Lo siamo? E siamo capaci di trasmettere alla nostra gente tale convinta fierezza?
Impostare (con Berlinguer) la "questione morale" come problema delle motivazioni dell'attività politica, significa - in termini gramsciani - niente altro che porre il problema del nesso che lega nel Partito intellettuali e classe, "governanti" e "governati", "rappresentanti" e base. E' solo una tale connessione (per Gramsci anche "sentimentale") che conferisce dignità altissima all'attività politica, e - per dir così - la riscatta dal carattere triviale della sua "materia prima", che è il potere; in mancanza di un tale nesso, la politica si riduce infatti al perseguimento e all'esercizio del potere per il potere, ma dunque dei propri interessi personali.
Occorre riflettere allora su come vive oggi nel Prc tale nesso, e così ritrovare le vere motivazioni (fondamentalmente etiche) del nostro fare politica da comunisti/e; ma occorre anche, su questa base, ridefinire e rafforzare nei fatti nuove limpide regole di democrazia nel rapporto fra i dirigenti (specie se nelle istituzioni), il Partito e la sua base sociale, in modo che la diversità comunista possa tornare a proporsi in tutta la sua feconda dirompenza. Ecco un tema centrale per il Congresso che si prepara.


Liberazione 11/08/2011, pag 8

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