mercoledì 7 settembre 2011

La solidarietà "armata"

Domenico Chirico*
«Le risorse a favore della cooperazione civile sono importanti anche per dare credibilità alla presenza dei nostri militari in Afghanistan», ha detto il sen. Tonini del Pd a sostegno della battaglia condotta dal suo partito per integrare nel decreto missioni una componente di cooperazione civile. Dopo anni di mobilitazione pacifista, la sua affermazione ci lascia quantomeno disarmati, sebbene nel 2003 eravamo un milione a sfilare per chiedere la fine dell'aggressione all'Iraq contro le poche centinaia di persone che quest'anno animavano piazza Navona protestando per i bombardamenti in Libia. Ma il dato non vale una resa, né culturale né politica. Dal momento che il governo di fatto non finanzia più la cooperazione allo sviluppo, si dà per scontato che gli unici fondi da stanziare debbano transitare attraverso il decreto missioni. Si tratta quindi di accettare l'idea che la cooperazione civile delle Ong debba esistere in funzione delle geo-strategie, possibilmente militari, del governo. In tempo di crisi, si sa, non si va tanto per il sottile, ma al di là delle scelte di ogni singola Ong, il problema resta politico, non economico.
Nel biennio 2010-2011, il ministero degli Esteri ha subito fortissimi tagli ai fondi per la cooperazione e questo ha impedito all'Unione Europea di raggiungere gli obiettivi di aiuto allo sviluppo. Alla Farnesina resta poco da spendere e quel poco deve essere impiegato assecondando scelte interne, piuttosto che rispondere alle reali esigenze espresse dalle società civile. Si avvalora così ulteriormente l'idea che le Ong possano esistere solo in quanto fornitori di servizi alle strategie della politica.
In verità il nome Organizzazione non-governativa dovrebbe essere garanzia di quella cooperazione e solidarietà che viene dai settori non pubblici della società italiana e di quei legami che costruiamo - da anni - con gli altri paesi. Non in modo subalterno alla politica, ma indipendente ed autonomo. Limitare la cooperazione internazionale esclusivamente a ciò che interessa al governo di turno è estremamente miope, perché danneggia la pluralità di soggetti e iniziative che le Ong hanno la capacità di mobilitare in tutto il mondo. Da tempo le Organizzazioni non governative sono costrette a camminare con le proprie forze (soprattutto le più grandi, a dire il vero), grazie ai finanziamenti raccolti che superano di tre volte quelli messi a disposizione dal governo nel 2011.
Questo sarebbe il momento di unire le forze, pur nella consapevolezza che la crisi economica tende inevitabilmente a marginalizzare la cooperazione internazionale. Data l'assenza di fondi, si dovrebbe rafforzare il dialogo politico, anche per rimediare agli errori di valutazione della politica estera italiana di fronte alle rivoluzioni arabe. Nessuno si è ancora premurato di chiamare le organizzazioni di solidarietà italiane a un tavolo per discutere quale debba e possa essere il ruolo della società civile nel dialogo con la riva sud del Mediterraneo. Eppure molti dei nostri interlocutori di sempre sono stati protagonisti delle rivolte in Tunisia, Egitto e delle proteste di massa in Iraq, Marocco, Siria, Giordania e Yemen. Sono anni che la società civile italiana dialoga con le società civile del mondo arabo, anche quando era costretta a nascondersi sotto le dittature.
E' già chiaro che l'Italia perderà l'occasione di avere un ruolo da protagonista nel Mediterraneo, ma ciò che deprime ancor di più è che il nostro Paese non è in grado di riconoscere - e quindi di sostenere - il patrimonio culturale e di conoscenze costruito in questi ultimi decenni dalle Ong, a differenza di quanto accadde invece in Libano nel 2006, quando nacque un tavolo di confronto al Ministero, frutto di un riconoscimento reciproco tra istituzioni e Ong, ciascuno nel proprio ruolo e con le proprie competenze.
Il decreto missioni sancisce il principio per cui alle Ong spettano solo gli spiccioli, peraltro neanche sicuri, secondo la piattaforma di Ong Link 2007. Soldi che comunque dovranno essere spesi solo per accompagnare le missioni militari. Il resto non conta. L'unico reale investimento è stato destinato alla chiusura delle frontiere, al controllo securitario delle coste e ai rimpatri dei migranti. Nessuna misura è stata presa dal governo per concedere visti speciali a quegli attivisti dei diritti umani che, a rischio della propria vita, lottano ogni giorno, dalla Siria allo Yemen, in nome della libertà.
Il nostro ministero degli Esteri nega attenzione alle Ong italiane, né - a differenza degli altri paesi europei - finanzia direttamente le organizzazioni dei paesi d'intervento. Per fortuna chi si occupa di solidarietà internazionale è abituato a lavorare a mani nude ed a fare sacrifici per la pace e la co-operazione tra i popoli. In questi mesi Un Ponte per…, l'Arci, Ya Basta, e tanti altri, hanno invitato attivisti da tutto il Mediterraneo per ragionare insieme su percorsi e problemi comuni, consapevoli che la politica sta cambiando, nelle rivoluzioni arabe come in Italia.
*Un Ponte per…


Liberazione 06/08/2011, pag 8

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