mercoledì 7 settembre 2011

Erdogan vince la sfida: cambi ai vertici dell'esercito

Turchia venerdì scorso si erano dimessi tutti i generali

Matteo Alviti
Una sola nomina. Che rappresenta però una piccola, grande rivoluzione, e che formalmente allinea Ankara al resto delle democrazie occidentali. Da giovedì, con la nomina del capo della gendarmeria Necdet Özel a capo di stato maggiore, in Turchia la politica è tornata a controllare l'esercito.
Il conflitto tra il potere militare e quello politico era definitivamente esploso venerdì della scorsa settimana, quando l'intero stato maggiore militare turco aveva rassegnato le proprie dimissioni in segno di protesta per i 42 generali attualmente detenuti senza accuse formali, sotto inchiesta per "tentato golpe". Le dimissioni erano seguite a una serie di incontri tra l'ormai ex capo di stato maggiore Isik Kosaner e il premier turco Recep Tayyip Erdogan, attraverso i quali i due avevano tentato di sciogliere il nodo prima dell'incontro annuale del Consiglio superiore militare.
Gli alti ranghi dell'esercito accusano la maggioranza conservatrice che sostiene Erdogan di utilizzare l'inchiesta giudiziaria per indebolire il loro ruolo. Il governo non aveva infatti accettato le nuove nomine proposte dai vertici militari in Consiglio, tra cui c'erano i nomi di 14 generali attualmente in carcere.
In altri tempi il conflitto si sarebbe risolto con un golpe. Ma dal 2003, praticamente incontrastato, al potere c'è Erdogan, l'uomo forte dell'Akp, il partito di centrodestra Giustizia e Sviluppo, che con 327 seggi in parlamento ottenuti grazie al 49,9% di voti nelle elezioni di giugno, può contare per altri quattro anni sulla maggioranza assoluta. E così la questione si è chiusa "semplicemente", con la nomina a capo di stato maggiore di Özel - "favorito" di Erdogan e dal capo di stato Abdullah Gül, anch'egli dell'Akp. Ora Özel ha il compito di rinnovare l'intera istituzione militare per adattarla ai tempi. Quelli dell'Akp.
La Turchia sta cambiando in fretta: dopo la crisi l'economia è tornata a correre quasi ai livelli degli altri paesi in ritardo di sviluppo. E ora, per Erdogan, anche la politica deve cambiare. Dopo l'estate sarà discussa una riforma costituzionale, che l'Akp dovrà necessariamente concordare con parte dell'opposizione, visto che non è riuscito a ottenere i due terzi dei seggi necessari a una riforma monocolore. Finora, a proposito dell'equilibrio tra esercito e governo, lo stato maggiore può decidere autonomamente su diverse questioni. Con la riforma il governo Erdogan intende riportare i militari sotto il comando del ministero della Difesa.
La novità positiva del ridimensionamento del potere militare nasconde dunque lati negativi. Il dilagare del potere del premier Recep Tayyip Erdogan e del suo partito liberal-confessionale proietta ombre lunghe sullo sviluppo delle relazioni democratiche in Turchia. Fino al recente passato, nel paese a cavallo tra Europa e Medio Oriente, erano stati i militari a fare da garanti del potere secolare, contro le derive teocratiche dei partiti islamici. Dal 1923 la rivoluzione kemalista aveva affidato loro questo ruolo, che nella storia della repubblica turca hanno esercitato, sanguinosamente, per ben tre volte, nel 1960, nel '71 e nel 1980. Senza voler considerare il "colpo di stato postmoderno" del 1997 che mise fine - senza sciogliere il parlamento né sospendere la Costituzione - alla grande coalizione guidata dal premier Necmettin Erbakan. E anni prima, nel 1949, era stato sempre l'esercito a garantire l'ingresso della Turchia nella Nato, rendendo Ankara una colonna dell'Alleanza miliare contro l'Unione Sovietica.
Certo, il dominio militare sulla politica non era stato indolore: la spada dell'esercito aveva condizionato lo sviluppo della democrazia parlamentare, dell'opposizione e del sindacalismo. Così come oggi rischia di fare l'Akp. Per questo in Turchia non mancano i critici al ridimensionamento del ruolo di militari, secondo cui non c'è da celebrare la nascita dell'"esercito del popolo", come hanno scritto alcuni giornali vicini al governo. Ma quella dell'"esercito degli imam".
Erdogan ha un progetto preciso: trasformare la repubblica parlamentare turca in un sistema presidenziale sul modello francese o statunitense. Ma la Turchia non ha né la tradizione democratica parlamentare francese, né contropoteri sviluppati come ci sono negli Stati Uniti. Anche la stampa, per esempio, da qualche tempo vive tempi difficili: oggi circa 70 giornalisti sono in carcere. E dall'ultima vittoria di Erdogan, a giugno, per evitare problemi molte firme critiche sono state licenziate dai più importanti canali televisivi.


Liberazione 06/08/2011, pag 7

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