mercoledì 10 novembre 2010

Bosnia-Erzegovina, prove tecniche di convivenza oltre i fantasmi della guerra

Musulmani, ortodossi e cattolici sono stati chiamati recentemente al voto

Matteo Alviti
Sarajevo è un catino in ebollizione. Ribolle di vita, oggi, nonostante tutto. Quando cala la sera le sue strade si riempiono di giovani che si incontrano nel piccolo centro della città per fare quello che fanno i loro coetanei nel resto del mondo. Provare a stare bene insieme. Cosa che in questa città, guardata a vista dalle distese di tombe e croci bianche che rilucono all'alba e al tramonto, patria di tre etnie e quattro religioni, non è poi così scontato.
I fantasmi della guerra continuano a vivere per le strade. Nei segni ormai quasi consumati lasciati a terra a testimonianza dei colpi di mortaio caduti, che la gente chiama le "rose di Sarajevo". Nelle targhe che ricordano i morti al mercato storico di Markale. Nei buchi che tempestano i palazzi che si affacciano sul viale dei cecchini. Delle guerre balcaniche dei primi anni '90 la Bosnia-Erzegovina è stata il centro nevralgico, teatro dei massacri più efferati di cui l'Europa sia stata testimone dalla fine della Seconda guerra mondiale - sono di certo più di 100mila le persone uccise in quel paese tra il 1992 e il 1995.
Oggi la Bosnia-Erzegovina, uno dei paesi europei più poveri, che conta poco più di 4,6 milioni di abitanti, sta tentando di lasciarsi definitivamente alle spalle il suo passato tragico, ancora accompagnata per mano dalla comunità internazionale, che ne garantisce la stabilità. Ma con l'economia praticamente ferma - crescerà dello 0,5% quest'anno -, quasi la metà della popolazione disoccupata e il 20% dei bosniaci che vivono sotto il livello di povertà, quel cammino è ancora lungo e tortuoso. E se le elezioni del tre ottobre per il rinnovo delle cariche presidenziali, per il governo, il parlamento centrale e due assemblee regionali, sono state un passo importante, le incognite sono ancora troppe per abbandonarsi alla speranza.
Per capire il senso del risultato elettorale bisogna però prima avere più o meno chiara - e non è affatto semplice - la struttura politica del paese, diviso in due entità semi-autonome: la Republika Srpska, poco meno della metà del territorio più vicina al confine con Serbia e Montenegro; e la Federazione bosniacco-croata, che esprime la maggioranza della popolazione, i musulmani e i cattolici, e controlla la maggior parte del territorio. Con 14 fra parlamenti federali, nazionali e cantonali, il sistema elegge cinque presidenti, 13 primi ministri e in tutto 700 parlamentari. Una follia per un paese di così modeste dimensioni. Alle ultime elezioni si sono presentati 39 partiti, riuniti in undici coalizioni, con 13 candidati indipendenti. Gli elettori votano inoltre i rappresentanti esclusivamente per la loro entità territoriale, e i candidati sono scelti su base etnica, con il risultato che i politici, i serbi in particolare, rincorrono le aspettative più identitarie dei loro elettori. Così, per evitare che tutto scivoli di nuovo in terreni pericolosi, la politica serba è controllata da un tutore nominato già subito dopo gli accordi di Dayton del 1995, l'alto rappresentante - finora sempre un europeo con un vice statunitense -, che vigila sulla politica con il compito di mediare e ha il potere di bloccare le leggi e sospendere dall'incarico qualsiasi carica pubblica, eletta o nominata che sia.
Dalle urne sono arrivati alcuni segnali positivi. E altri negativi, come l'affermazione, scontata, del premier uscente Milorad Dodik eletto presidente della Republika Srpska con il 50,5% dei voti e del suo partito nazionalista Snsd, Alleanza dei socialdemocratici indipendenti. Dodik di unità non ne vuole sapere, e continua a guardare alla Serbia: la Bosnia è «uno Stato impossibile», ha ribadito dopo le elezioni. Alla presidenza tripartita i serbi bosniaci hanno rieletto il nazionalista Nebojsa Radmanovic, lasciando poco spazio alle speranze di dialogo. Radmanovic ha superato di poco il candidato moderato Mladen Ivanic, penalizzato da un insolitamente alto numero di schede annullate che hanno acceso qualche sospetto.
Opposto l'atteggiamento della Federazione bosniacco-croata, che ha eletto per la presidenza tripartita il moderato Bakir Izetbegovic - figlio del presidente durante la guerra Alija, fondatore nel 1990 del Partito di azione democratica Sda - e riconfermato il croato Zeljko Komsic, del Partito socialdemocratico Sdp, che ha sconfitto il suo avversario nazionalista anche grazie al voto dei bosniacchi, i musulmani bosniaci. I due guardano ora a una stretta cooperazione dei loro partiti, a una coalizione perché «le nostre idee sul futuro del paese sono molto simili», ha detto Izetbegovic. Tutto il contrario dei propositi di Dodik, che continuerà a bloccare ogni tentativo di centralizzazione del governo del paese e a livello nazionale collaborerà solo con i nazionalisti dell'Unione democratica croata, Hdz: uniti nella ricerca della divisione.
Secondo la maggior parte degli analisti le elezioni hanno confermato l'ingovernabilità del paese, che si rifletterà subito nella difficile formazione della coalizione nazionale. «Non sarà nominato nessun governo prima di febbraio dell'anno prossimo», prevede l'alto rappresentante Valentin Inzko. «E' una cosa normale qui: dal 1995 la formazione del governo è sempre durata tra i quattro e i cinque mesi».
Comunque, nonostante la maggioranza della parte serbo-bosniaca non abbia ancora digerito la convivenza con gli odiati bosniacchi e Dodik non perda occasione per parlare di secessione, la Republika Srpska offre timidi segnali di speranza. A Foca, per esempio, c'è un sindaco della minoranza serba, Zdravko Krsmanovic, che si impegna quotidianamente per l'integrazione dei musulmani, ricostruendo le moschee distrutte in guerra e ricreando le condizioni per la convivenza. Durante la guerra Foca è stata una delle città che hanno subito le peggiori atrocità. Dopo essere stata presa, la città fu rinominata Srbinje, "il posto dei serbi", e il palazzetto dello sport fu trasformato nella casa degli stupri etnici. Krsmanovic è stato in carica per sei anni e nelle elezioni di ottobre ha deciso di candidarsi per il governo. La sua è una voce rara tra i politici locali: «La mia missione è promuovere la pace, il dialogo e la tolleranza», ha detto alla Bbc. Ma non tutti a Foca sono con lui e molti lo accusano di essere interessato solo ai voti dei musulmani.
La maggioranza della popolazione vuole comunque uscire il prima possibile dallo stato di isolamento internazionale in cui si trova, magari conquistando il diritto alla mobilità in Europa senza bisogno di visto - l'Ue deciderà in proposito tra pochissimo. A questo riguardo la segretaria di stato Usa Clinton, in visita in Bosnia la settimana dopo le elezioni, ha invitato la politica locale al superamento delle divisioni etniche e alla maturazione del sistema politico. E se rincorrere l'Europa necessita di un percorso lungo e faticoso, il paese sta ora puntando anche all'ingresso nella Nato. Per questo, e non solo, presto partiranno per l'Afghanistan i primi 45 soldati bosniaci. «Finalmente anche noi possiamo aiutare qualcuno», ha detto il comandante della compagnia, «e non solo ricevere l'aiuto degli altri. Per noi è un momento molto importante».
«La Bosnia è uno stato giovane», ha ricordato il sindaco di Foca Krsmanovic, «e non possiamo permettere che questo bambino venga ucciso prima ancora che possa vivere con le sue forze».

Liberazione 07/11/2010, pag 14

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