mercoledì 10 novembre 2010

Fondo Monetario: una riforma di facciata

Nicola Melloni
La crisi finanziaria che ha colpito le economie occidentali negli ultimi tre anni si porta dietro, come ogni crisi, un processo di ristrutturazione istituzionale. D'altronde, il crollo dei mercati una indicazione sicura l'ha data: quel sistema tanto bene non doveva funzionare se questi sono stati i risultati. Di qui la riforma dei mercati finanziari varata pochi mesi fa da Obama, di qui l'accordo raggiunto per la riforma del Fondo Monetario Internazionale in questi ultimi giorni. Il direttore del Fondo Strauss-Khan l'ha definita un passaggio storico ed indubbiamente il fatto che le economie emergenti - il Brasile, la Russia, soprattutto la Cina - abbiano aumentato la propria quota nel fondo, avendo dunque più voce in capitolo (nel FMI si vota in base al discutibile concetto "un dollaro-un voto", dunque chi contribuisce di più ha un voto più pesante) è un fatto importante. D'altronde, non poteva essere altrimenti, dato il mutato assetto geopolitico e la differente distribuzione del potere a livello internazionale.
Il "nuovo" FMI è come il G20 che ha sostituito il G8 - sono cambiamenti che rappresentano semplicemente un mondo non più unipolare, un mondo in cui i BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) in generale, e la Cina in particolare, sono attori strategici indispensabili.
Questo è ancora più vero per quel che riguarda il sistema monetario internazionale. Sono le economie emergenti ad essere quelle più ricche di riserve internazionali: la Cina in virtù del costante surplus che registra la bilancia dei pagamenti, la Russia grazie all'export del petrolio, così come i paesi arabi. Inoltre la maggioranza degli stati asiatici, scottati dalla crisi finanziaria del 1997 hanno in questi anni accumulato grandi quantità di riserve per evitare possibili attacchi speculativi. Sono, in parole povere, gli stati più ricchi di liquidità e quindi con la maggior capacità di intervento in campo economico. La situazione è in qualche modo paradossale, avendo queste economie non ancora del tutto "sviluppate" le armi per fronteggiare, almeno parzialmente, la crisi che ha invece attaccato innanzitutto le economie occidentali. Il Fondo era ormai da anni sotto-finanziato e dunque impossibilitato ad effettuare un intevento di un qualche rilievo ed era dunque ovvio che dovesse riformarsi per aprire le porte a quei paesi che hanno un peso così rilevante a livello economico e che dispongono delle risorse di cui il FMI ha bisogno per aver un ruolo più attivo nella gestione degli affari economici internazionali.
In realtà, in una situazione di questo genere, la nuova governance del FMI è un passo troppo timido seppur nella giusta direzione. Le riserve nella disponibilità del Fondo sono state raddoppiate ma rimangono comunque insufficienti per fronteggiare crisi come quelle attuali che coinvolgono giganti finanziari con esposizioni sui mercati superiori al PIL di paesi come il Regno Unito. Inoltre, il peso relativo degli Stati Uniti (rappresentanti il 17% dei contributi e quindi dei voti) rimane immutato e saranno gli Europei a sacrificarsi in favore delle economie emergenti. Non è un particolare da poco: per le decisioni più importanti, soprattutto in materia di riforma organizzativa, il Fondo richiede una maggioranza qualificata dell'85%, il che semplicemente significa che gli USA continuano a mantenere, unici tra tutti i paesi rappresentati, il potere di veto.
Il problema di fondo, però, è un altro e non viene minimamente sfiorato dalla riforma del Fondo. Il FMI, come tutte le organizzazioni internazionali, è un'istituzione che è il risulato dell'ideologia dominante e dei rapporti di forza egemonici a livello internazionale ed ha una propria specifica funzione all'interno di un sistema di potere determinato storicamente. La prima versione del Fondo, quella di Keynes e di Bretton Woods, era funzionale al capitalismo temperato del New Deal, legato al dollaro e ai cambi fissi e ad un sistema di relazioni produttive soprattutto domestiche. In quel contesto il Fondo garantiva l'equilibrio dei conti e la solvibilità del sistema di pagamento a livello inter-statale. Con la crisi del capitalismo democratico e l'emergere del neo-liberismo il Fondo si è trasformato di conseguenza, addirittura stravolgendo le sue funzioni classiche e con il compito preciso di intervenire per promuovere la globalizzazione economica e la supremazia del mercato sulla politica, soprattutto attraverso un uso spregidicato dei prestiti internazionali in cambio di cambiamenti strutturali, la famosa condizionalità. Ora siamo davanti alla crisi del modello socio-economico che ha caratterizzato gli ultimi trent'anni, ma un nuovo mondo fatica ad emergere. C'è sì una ridistribuzione del potere ma non un nuovo sistema egemonico nè, al momento, nuovi attori in grado di creare e stabilizzare un nuovo ordine internazionale. Non possono farlo gli Stati Uniti, in crisi ed incapaci di rilanciare il proprio sistema produttivo. E non può farlo la Cina che non ha ancora il peso specifico per imporre le proprie regole e con una situazione domestica più complessa di quello che potrebbe sembrare all'esterno. Prova ne è la tesissima battaglia diplomatica tra questi due paesi sul sistema valutario internazionale, con gli USA che insistono, inutilmente, nel chiedere la rivalutazione del remnibi per ridurre il proprio deficit commerciale e Cina e Brasile che accusano gli Stati Uniti di pompare artificialmente il mercato finanziario col rischio di esportare all'estero quel modello di bolle speculative che ha provocato la recente crisi economica. Il semplice fatto che non sia possibile raggiungere un accordo sulla gestione della politica monetaria internazionale tra i suddetti paesi e che anzi questi abbiano interessi così divergenti significa che il FMI, seppur riformato, non potrà avere nessun ruolo significativo. Il Fondo rimane, in realtà, il poliziotto di un sistema di potere che si è ormai sfaldato. La sua riforma è un atto cosmetico, funzionale nel breve periodo, come lo sono state la riforma finanziaria di Obama e le nuove regole adottate dal G20 di Londra dello scorso anno, ma sono riforme che non hanno nessuna ambizione di cambiamento strutturale ed incapaci di fornire le basi per un nuovo patto sociale, tanto a livello domestico che internazionale. Le regole, in fondo, sono il risultato dell'azione politica ed è proprio la politica che sembra mancare in questa fase.

Liberazione 09/11/2010, pag 1 e 7

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