mercoledì 24 novembre 2010

«Senza scuola pubblica condannati alla decadenza»

L'intervento di Carlo Ginzburg, in occasione del Premio Balzan

Ieri Carlo Ginzburg, uno degli storici più autorevoli in Italia e nel mondo e figlio di Natalia e Leone Ginzburg, è stato insignito del Premio Balzan 2010 per la storia d'Europa (1400-1700), intitolato ad Eugenio Balzan, giornalista ed imprenditore italiano costretto durante il fascismo ad emigrare in Svizzera dove morì nel 1953. Dopo la sua morte la figlia Angela Lina diede vita ad una fondazione dedicata a suo padre la quale conferisce ogni anno quattro premi nelle categorie "lettere, scienze morali e arti" e "scienze fisiche, matematiche, naturali e medicina", e ogni quattro anni assegna il premio "per l'umanità, la pace, la fratellanza fra i popoli". Pubblichiamo qui il discorso di Ginzburg pronunciato ieri al Quirinale per la consegna del premio.

Carlo Ginzburg
Signor Presidente della Repubblica, Membri della Fondazione Balzan, Signore e Signori, sono profondamente onorato dal premio prestigioso che mi è stato conferito. In questo momento provo il bisogno di ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato con il loro affetto, le loro critiche, il loro insegnamento. Alle persone della mia famiglia e ai miei amici rivolgo un pensiero riconoscente: a quelli che ci sono e a quelli che non ci sono più. Qui, in quest'occasione pubblica, voglio ricordare coloro da cui ho imparato - non tutti, perché l'elenco sarebbe troppo lungo; ma qualcuno sì.
Insegnare è stato il mio mestiere, o meglio un aspetto del mio mestiere, accanto al lavoro di ricerca. Mi è capitato spesso di dire che insegnare mi piace ma imparare mi piace ancora di più. Considero l'imparare una delle grandi gioie della vita. Ho avuto la fortuna di imparare da persone diversissime, piene di qualità straordinarie; se mi volto indietro, la loro generosità e la loro diversità umana e intellettuale mi riempiono di commozione. E penso al meraviglioso disegno in cui Goya ha raffigurato un vecchione con la barba bianca che avanza faticosamente appoggiandosi a due bastoni, sovrastato da due parole: Aun aprendo, imparo ancora, sto ancora imparando. Goya pensava a se stesso, e io guardando quel vecchio mi riconosco in lui. Non si finisce mai di imparare. Ho imparato fuori dalla scuola, in maniera imprevedibile e in circostanze imprevedibili; e ho imparato dentro la scuola, dalle elementari in su, fino a ieri, quando ho lasciato formalmente l'insegnamento: perché, come si sa, gli insegnanti imparano dagli studenti, e viceversa. Quello che dico è banale, perché tutti imparano (l'homo sapiens non è l'animale che sa, è l'animale che sa imparare). Ma non è banale ricordare tutto questo oggi, in un'occasione così solenne, quando in tanti paesi, a cominciare da quello di cui sono cittadino, la scuola è diventata un'istituzione fragile e minacciata - dalla miopia della classe politica, in primo luogo, ma anche dall'attenzione assolutamente inadeguata dell'opinione pubblica. Ho detto miopia: ma mi rendo conto di aver usato un termine improprio. Certo, tagliare gli investimenti destinati all'istruzione, in un mondo in cui l'istruzione è (e sempre più sarà) il bene più prezioso per lo sviluppo di una società, è un gesto miope, che va contro gli interessi del paese: un gesto, diciamolo senza infingimenti, che lo condanna fin d'ora a una sicura decadenza. E tuttavia quest'argomentazione è insufficiente e va respinta, perché di fatto scende sul terreno che vuole combattere, accettando l'idea, così spesso data per scontata, che l'istruzione e la trasmissione del sapere siano beni soggetti alla legge di mercato, al meccanismo della domanda e dell'offerta. Allora mi correggo: non si tratta di miopia, o comunque non solo di miopia. Che cosa ispira l'attacco (perché di attacco si tratta) all'istruzione pubblica: malizia o matta bestialitate? si chiederanno i lettori di Dante. Forse entrambe, chissà.
La mia generazione ha fatto in tempo ad essere coinvolta nella straordinaria tecnologia che ha trasformato la trasmissione e l'apprendimento del sapere: Internet. Qualcuno ha detto che Internet è uno strumento di democrazia. Presa alla lettera, quest'affermazione è falsa. Bisogna aggiungere: è uno strumento di democrazia potenziale. Il motto di Internet è riassumibile nelle parole, paradossali e politicamente scorrette, pronunciate da Gesù: «a chi ha sarà dato» (Matteo, XIII, 12). Per navigare in Internet, per distinguere le perle dalla spazzatura, bisogna avere già avuto accesso alla cultura - un accesso che di norma (parlo per esperienza personale) è associato al privilegio sociale. Internet, che potenzialmente potrebbe essere uno strumento in grado di attenuare le disparità culturali, nell'immediato le esaspera. La scuola ha bisogno di Internet, certo; ma Internet, per essere usato secondo le sue potenzialità (diciamo realisticamente: secondo un milionesimo delle sue capacità) ha bisogno di una scuola pubblica che insegni davvero.
Ho avuto la fortuna nel corso della mia vita di frequentare scuole e università, in Italia e fuori d'Italia, incontrando studiosi straordinari che erano anche tutti, nessuno escluso, insegnanti straordinari. Se non li avessi incontrati sarei oggi un'altra persona, una persona che non riesco nemmeno a immaginare. Ne nomino alcuni: Delio Cantimori, Arsenio Frugoni, Augusto Campana, Arnaldo Momigliano, Gianfranco Contini, Carlo Dionisotti, Ernst Gombrich, Lawrence Stone. E poi, fuori dalle aule universitarie, Felice Balbo, Sebastiano Timpanaro, Cesare Garboli. Ho citato solo nomi di persone morte. Ai vivi, alle persone che mi sono vicine e carissime, va ancora una volta la mia gratitudine.

Liberazione 20/11/2010, pag 8

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