mercoledì 8 settembre 2010

Democrazia diretta e autorganizzazione? Un passato carico di presente

Un brano da "Gli studenti della Pantera" di Nando Simeone

Pubblichiamo uno stralcio dal capitolo conclusivo del libro di Nando Simeone Gli studenti della Pantera. Storia di un movimento rimosso , Edizioni Alegre (pp. 182, euro 14,00)

Nando Simeone
I movimenti studenteschi tendono a comparire sulla scena politica nei momenti in cui la società attraversa crisi profonde, con tensioni e contraddizioni politiche e sociali che attraversano più classi e strati sociali. Il movimento del 1990 nacque in uno dei punti più alti di crisi internazionale, con il crollo dei regimi burocratici dell'Est, l'inaugurazione della fine del bipolarismo e dei blocchi contrapposti e l'avvio del cosiddetto unilateralismo Usa. Tutto questo provocò dei veri e propri terremoti nell'Occidente capitalista, e in Italia produsse la scomparsa di partiti di massa come la Dc e il Psi, oltre al grande processo di scomposizione e ricomposizione seguito allo scioglimento del Pci. La Pantera si è mossa dentro uno "spartiacque della storia", con la chiusura del ciclo storico del socialismo reale e l'avvio della globalizzazione capitalista. In questo contesto quel movimento ha espresso il rifiuto delle privatizzazioni e la ricerca di una nuova idea di democrazia, esprimendo un anticapitalismo istintivo.

La sconfitta del movimento e la difficile ristrutturazione universitaria.
Se guardiamo alle sue rivendicazioni, non possiamo non dire che la Pantera subì una secca sconfitta. Nessuno degli obbiettivi contenuti nella piattaforma nazionale del movimento è stato ottenuto. Non è stata ritirata la riforma Ruberti né i 4 disegni di legge (quello sull'autonomia universitaria, sugli ordinamenti didattici, sul diritto allo studio e sul dottorato di ricerca); l'articolo 16 non è stato cancellato e il ministro Ruberti non si dimise, anzi fu pure rieletto nelle liste elettorali dei Progressisti. Le classi dominanti però non riportarono una vittoria altrettanto secca. Il pacchetto Ruberti esprimeva l'obiettivo di privatizzare l'università e la formazione, sul modello dei college statunitensi. Questo processo è avanzato con le successive riforme - in particolare la Berlinguer-Zecchino del 1999 - ma non è stato ancora compiutamente portato a termine, tanto da agitare ancora negli ultimi anni gli interventi di Moratti e Gelmini. Nel nostro Paese, ma anche nel resto d'Europa, si è proceduto per tappe, a causa anche delle resistenze dei movimenti studenteschi e del movimento operaio.
La riforma Ruberti fu un salto di qualità nell'attacco all'università pubblica, l'inizio di un processo volto alla creazione delle università di élite e di quelle dequalificate e nozioniste. Le prime dovrebbero essere l'espressione più compiuta della valorizzazione del grande capitale attraverso la produzione di scienza e tecnologia, e i luoghi di formazione delle classi dominanti. La capacità di comandare implica conquista e possesso dell'egemonia. Senza egemonia, e cioè senza capacità di indurre ad accettare, ad interiorizzare e fare proprio da parte dei dominati il punto di vista dei dominanti, non si può produrre alcuna struttura di dominio. Questa è una delle funzioni che storicamente l'università ha svolto, e la creazione di università d'élite risponde all'esigenza di razionalizzare tale processo complesso e contraddittorio al minor costo possibile. Per questo servono anche le seconde - le università dequalificate e nozioniste - dove formare tecnici qualificati utilizzando la gerarchizzazione e i vari livelli di laurea per «abbassare le speranze dei laureati sull'utilizzo effettivo nel mercato del lavoro delle competenze acquisite, sulla propria carriera e sul proprio reddito» (Giulio Calella, L'Onda anomala , Alegre 2008) in modo da far accettare ai futuri lavoratori qualificati qualunque lavoro, a qualunque reddito. Ma servono anche per omologare le coscienze: «sarebbe un errore credere che i progetti di riassetto dell'istruzione (…) siano dettati solo da preoccupazioni economiche ed efficientistiche. L'omogeneizzazione della gioventù è per le classi dominanti un problema politico, una parte della nuova forza delle classi subalterne, ridotta ma non distrutta dalle sconfitte operaie, dai colpi allo stato sociale e dai processi di ristrutturazione. Per questo la restaurazione dei vecchi strumenti selettivi e l'introduzione di nuovi, le spinte alla privatizzazione, la separazione dei ghetti dalle scuole di censo e di merito, non sono funzionali solo alla drastica riduzione degli investimenti pubblici per i bisogni sociali. Né servono solo a creare nuove occasioni di investimento o a mettere la ricerca universitaria ancora più strettamente alle dipendenze del profitto». (Lidia Cirillo, Bandiera Rossa , n° 1 febbraio 1987). Rispondono anche all'esigenza di scongiurare lo spettro delle rivolte sociali e di una loro radicalizzazione simile a quelle avute negli anni Settanta.
Insomma, la Pantera è stata sconfitta, ma la forza che ha messo in campo e la paura che ha provocato, ha costretto Governo e Confindustria a procedere con prudenza e gradualità nella ristrutturazione universitaria, rallentandone il processo. Ciò non toglie che la Pantera è stata ingabbiata. E la causa principale della nostra sconfitta fu l'isolamento, la totale assenza dei movimenti sociali ma anche l'isolamento politico e sindacale in cui Pci e Cgil in particolare lasciarono il movimento.

I collettivi e la coscienza del proprio essere sociale.
Il movimento del 1990 segna una discontinuità con il movimento del Sessantotto e con quello del Settantasette. E' stato un movimento che si è percepito innanzitutto come movimento di studenti. Dopo l'Ottantacinque i collettivi si trasformarono lentamente diventando sempre meno di esclusivo appannaggio delle organizzazioni politiche e sempre più strutture sociali. Furono la spina dorsale della Pantera, con un ruolo centrale nell'avvio della mobilitazione e nella straordinaria capacità di mantenere le facoltà occupate per più di tre mesi. Dopo il 1990 alla Sapienza di Roma la forma collettivo venne meno per alcuni anni. Il movimento aveva sedimentato un numero consistente di attivisti che, sia per la forte politicizzazione sia per l'intervento attivo di alcune organizzazioni politiche, portarono in parte al superamento di quella forma. Ma verso la seconda metà del decennio i collettivi sono diventati sempre più uno strumento di autorganizzazione democratica degli studenti. Tale processo fu insomma il frutto del combinato dialettico tra l'estensione numerica del soggetto studentesco e la capacità di alcuni soggetti politici di comprendere la dinamica complessiva e di modificare il proprio intervento studentesco. In definitiva, i collettivi e i comitati studenteschi furono lo strumento con cui si organizzò la parte trainante degli studenti della Pantera. E questo è uno dei tratti che evidenzia come il movimento studentesco del '90 sia stato cosciente del proprio essere sociale.

Il nodo irrisolto dell'autorganizzazione.
Il movimento della Pantera è stato attraversato in maniera decisiva dal dibattito sulla democrazia e l'autorganizzazione. Le due Assemblee Nazionali del movimento pur (...) tra mille contraddizioni, si svolsero entrambe per delegati/portavoce, e anche questo elemento è un inedito nella storia dei movimenti studenteschi italiani.
Fu proprio la questione della democrazia, intrecciata ai limiti di strategia, a produrre l'implosione della seconda assemblea nazionale di Firenze, che rappresentò il momento più alto della crisi del movimento (...). Dietro al fallimento di questo esperimento di democrazia diretta, ci sono i limiti della cultura politica della sinistra presente nel movimento. Le culture "tardo togliattiane" e quelle "tardo operaiste" erano più forti delle "culture consiliari", e la strategia dell'autorganizzazione e della democrazia diretta nei movimenti rimane un problema irrisolto nel nostro paese, che si ripresenta ad ogni esplosione sociale (...).

Liberazione 13/06/2010, pag 16

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