Matteo Alviti
Un referendum amletico. Votare sì per modernizzare il paese, avvicinarlo all'Europa, restituire valore all'uguaglianza di fronte alla legge e alla democrazia, oppure votare no per difendere le istituzioni, proteggere la laicità dello stato e inaugurare un nuovo progetto costituente.
Il referendum costituzionale al quale sono chiamati i turchi oggi rappresenta un passaggio importante per il futuro della nazione. Il pacchetto di riforme proposto dalla maggioranza del premier Erdogan comprende modifiche a 26 articoli di quella costituzione scritta ed emanata sotto i militari dopo il colpo di stato con cui presero il potere nel settembre del 1980. Oggi, a trent'anni esatti dal golpe, il referendum potrebbe infliggere un pesante colpo all'equilibrio di poteri nato in quei giorni. Oppure, come dicono i critici, scardinare ulteriormente l'impianto secolare della repubblica kemalista. Da quando nel 2002 è diventato maggioranza l'Ak, il partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdogan, ha tentato in ogni modo di ridimensionare il peso politico dei militari. E il referendum è un altro passo in quella direzione.
Sono soprattutto due le questioni al centro del dibattito politico sulla consultazione. La prima riguarda la riforma del sistema giudiziario che l'Ak ritiene troppo devoto ai militari. Le modifiche proposte stabiliscono che il bando dei partiti debba essere approvato dal parlamento e che la corte costituzionale abbia un maggior numero di membri, sulla cui elezione il presidente e il parlamento avrebbero più voce in capitolo. Attualmente i giudici anziani hanno potere di veto, il che agevola il perpetuarsi dell'impostazione kemalista e militarista della corte. Il ruolo della magistratura è molto importante nella vita politica turca, basti considerare che negli anni decine di partiti, curdi soprattutto, sono stati banditi per via giudiziaria e che nel 2008 anche l'Ak ha rischiato la stessa sorte.
La seconda questione riguarda le norme che renderebbero più semplice sottoporre i militari alla giustizia civile e tutelare i civili dalla corte marziale. Le riforme cancellerebbero anche l'immunità per i militari di alto grado protagonisti del golpe del 1980. Si tratta delle stesse persone che hanno ucciso, imprigionato e torturato centinaia di migliaia di persone. Come il curdo Salih Sezgin, che all'Economist ha raccontato la sua prigionia a Diyarbakir: «Dopo il golpe sono stato costretto a mangiare le mie feci e sono stato violentato ripetutamente con un bastone».
D'altra parte sono proprio i militari a essere visti come il più solido baluardo contro quello che l'opposizione denuncia come il progetto di islamizzazione del paese portato avanti dalla maggioranza di Erdogan. Il maggiore partito di opposizione, il Chp repubblicano, sta facendo campagna per il no battendo proprio su questo tasto. Anche Pace e democrazia, oggi il più grande partito curdo, ha annunciato di voler boicottare il referendum su indicazione del Pkk. Il partito curdo dei lavoratori lo scorso 13 agosto ha proclamato una tregua fino al 20 settembre per dare tempo all'Ak di accettare le sue proposte, la più importante delle quali è la cancellazione della soglia di sbarramento elettorale al 10%, che fino a oggi ha tenuto fuori dal parlamento le rappresentanze curde. Alla richiesta sulla soglia di sbarramento dei curdi si sono uniti anche i liberali, insoddisfatti per la parzialità delle modifiche costituzionali proposte: «Sì, ma non è abbastanza», è lo slogan liberale per esprimere il dissenso nei confronti di un governo che dal cestino delle riforme necessarie sceglie solo quelle che più gli aggradano.
Il paese è diviso e la campagna referendaria si è trasformata in parte in una campagna elettorale pro o contro Erdogan - maggiore artefice di questa polarizzazione -, a meno di un anno dalle prossime elezioni parlamentari del luglio 2011. Meglio di tante considerazioni sono le parole di un giovane professore di diritto costituzionale che ha preferito rimanere anonimo: «Sulla carta le riforme sono in linea con le norme europee. Dunque dovrei votare sì. Ma non posso. Il problema è che non abbiamo ancora una democrazia matura. Non mi fido di Erdogan e compagnia, non sono sicuro che dopo la vittoria non vadano avanti a nominare la loro gente», ha detto al Time.
Ieri l'agenzia Reuters riportava gli ultimi sondaggi dell'istituto turco Konda, secondo cui i sì al referendum sarebbero in netto vantaggio sui no, con un 56,68% delle preferenze. Ancora al 17,6% gli indecisi, però, che potrebbero ribaltare qualsiasi previsione. Quello di Konda è un rilevamento leggermente più sbilanciato rispetto ad altri istituti, per cui il risultato sarebbe più incerto.
Liberazione 12/09/2010, pag 1 e 7
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