giovedì 30 settembre 2010

Precarietà e insicurezza. Benvenuti nella società delle anfetamine

La paura è tra i temi più studiati dai sociologi, soprattutto d'area anglosassone

Tonino Bucci
Il Duromine è un'anfetamina che provoca l'aumento dell'adrenalina, del battito cardiaco e della pressione sanguigna oltre che insonnia, costipazione e anoressia. Gli effetti durano fino a 24 ore. E' un'anfetamina che viene prescritta solo nei casi più gravi di obesità. Qualche anno fa un'organizzazione che riunisce oltre duecento sigle sindacali di tutto il mondo (Icftu, Internazional confederation of free trade unions) accusò una compagnia filippina, la Jc Penney, di distribuire regolarmente, ogni settimana, il Duromine Phentermine ai propri lavoratori. Gli operai dell'azienda erano costretti a prenderlo per tirare avanti 17 ore di lavoro al giorno - a tanto corrisponde l'orario medio. Unici esentati dall'uso dell'anfetamina, i lavoratori affetti da ipertensione. La denuncia dei sindacati informava degli effetti di dipendenza, di operai che continuavano a prendere il Duromine anche quando non dovevano perché non riuscivano a smettere; di lavoratori che restavano svegli tutta la notte, ma senza energia. Casi analoghi sono stati segnalati anche alla Bed & Bath di Prapadeng, in Thailandia, una compagnia che lavorava in subappalto per Nike, Levi, Reebok e Adidas, e che per "aiutare" i propri operai ad arrivare fino a fine turno somministrava loro anfetamine. Si potrebbe continuare nell'elenco con la Anvil Ensembles nelle Filippine o l'Angelica Corporation oppure con la Lucasan in Guatemala, dove gli operai sono chiusi a chiave dalle otto di mattina alle otto di sera, a volte fino a mezzanotte e, se ci sono grossi ordini, anche per turni continuati di 60 ore di fila.
Qualcosa del genere, anche «Se nel Sud del mondo i lavoratori ricevono anfetamine coattivamente dalle direzioni, nel Nord del mondo sono i lavoratori stessi a ricorrere ad alcol e sostanze psicotrope per "tenersi su"; sostanze che, forse, non servono tanto a tenere i lavoratori "su" fisicamente quanto emotivamente». Francesca Coin è una sociologa, autrice di uno studio, Il produttore consumato, sottotitolo Saggio sul malessere dei lavoratori contemporanei (edizioni Il Poligrafo, pp. 304, euro 23) apparso un paio d'anni fa. E' una delle poche studiose che ha tentato di spiegare il consumo di massa di sostanze psicotrope guardando, da un lato, a quel che accade nella fascia del lavoro precario e, dall'altro, agli effetti sulla personalità degli individui dell'immaginario consumistico. «L'estensione disumana dei turni di lavoro e lo scarso spazio per una vita relazionale, affettiva, sana, sociale, fa sì che i lavoratori contemporanei debbano non solo riuscire a sopportare la fatica fisica e mentale che il proprio lavoro comporta, ma anche le difficoltà emotive derivanti dalla limitatezza, dalla miseria della loro vita relazionale. In questa situazione, il consumo di anfetamine, psicofarmaci, alcol e droghe tra i lavoratori di tutto il mondo non fa che accrescersi». La novità è che la tossicodipendenza non può più essere definita solo in relazione all'uso di sostanze farmacologiche. Tipici comportamenti da assuefazione si riproducono ovunque in una società che è drogata fin nella normalità, nello stile di vita quotidiana, in un immaginario consumistico compulsivo. Lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin è stato il primo a coniare il termine "shopping compulsivo". Già nel 1915 descrisse il comportamento ossessivo del "drogato d'acquisto", dell'impulso irrefrenabile allo shopping che può provocare crisi e perdita di autocontrollo nel consumatore. In tempi recenti, per stare al campo degli studi italiani, due psicologi, Roberto Pani e Roberta Biolcati, hanno teorizzato il concetto di «dipendenza senza droghe». Lo shopping sarebbe tra quei rituali compulsivi - come i videogame e la navigazione in internet - che possono sfocare in patologie cliniche. Sedativi, eccitanti e pillole della felicità diventano vere e proprie strategie individuali di risposta ai desideri compulsivi ma irrealizzabili cui ci sottopone l'immaginario consumistico. O anche per supplire al vuoto affettivo, alla difficoltà di relazioni private, vissute sempre più come terreno di rischio e di ansia.
Ma è soprattutto dalla sociologia d'area anglosassone che arrivano gli studi più freschi sulla società dell'insicurezza. Frank Furedi, ad esempio, è fra i sociologi che più s'è occupato della «cultura della paura». Un paio di suoi libri sono apparsi in italiano, Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del XXI secolo (Raffello Cortina, 2007, euro 13) e Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana (Feltrinelli, 2008, euro 9). L'abbiamo incontrato al recente Festivalfilosofia di Modena. «L'incertezza - spiega Furedi - è oggi un problema morale che caratterizza le nostre vite. C'è di nuovo rispetto al passato che l'imprevedibilità del futuro è sempre associato con qualcosa di negativo. La società cerca di ridurre al minimo l'incertezza. Viviamo in una cultura del pensiero precauzionale, abbiamo sempre in mente lo scenario peggiore. Ogni cosa rappresenta un pericolo potenziale. Non solo le questioni sociali e collettive, l'inquinamento, la crisi, ma anche le relazioni private sono vissute come fattori di rischio. Persino nella sfera sentimentale prevale l'atteggiamento della prudenza. Abbiamo paura dell'amore, del ruolo di genitori. Viviamo nell'ansia e nel pensiero che ci possa capitare la cosa peggiore. E' un sentimento molto diffuso in Inghilterra e in America».
Non ci sono solo i media ad alimentare nella percezione collettiva un senso di insicurezza dell'individuo rispetto a pericoli "globali" - l'immigrazione, il terrorismo, la criminalità - ma anche la scuola appartiene a pieno diritto alle istituzioni della "paura". Nello specifico Furedi ha individuato nel sistema dell'istruzione britannica un eccesso di psicologismo, una tendenza a interpretare anche i comportamenti più quotidiani da un punto di vista terapeutico. «L'atteggiamento vivace di un bambino può diventare un disturbo dell'attenzione, mentre una banale delusione può essere considerata come una minaccia all'autostima. La scuola dovrebbe accompagnare gli individui all'età adulta, invece accade che dai banchi scolastici escano persone insicure, condannate a vivere una sorta di eterna infanzia». Il dato sconcertante è che le scuole britanniche competano tra loro «non per chi offra la migliore istruzione, ma per chi garantisce la sicurezza e l'incolumità degli studenti». «I bambini non vengono stimolati intellettualmente, non vengono avviati all'autonomia, ma subiscono un vero e proprio processo di "infantilizzazione" a vita». Viene da chiedersi se la paura sia soltanto un fatto culturale o se la fabbrica dell'insicurezza non risponda anche a una politica di gestione del consenso. Non è un mistero che tutti i populismi parlino il linguaggio della paura e se ne servano per invocare società più autoritarie e gerarchiche. «Non c'è dubbio, la paura è un sentimento che permette di manipolare gli individui. Il riferimento al terrorismo come minaccia globale o la percezione dei Rom come pericolo sociale sono funzionali allo scopo. C'è una novità però rispetto al passato. La paura non è più soltanto un sentimento esclusivo delle classi popolari. Oggi anche le elites hanno paura, anche i governanti, gli intellettuali. Anzi è più facile che ad aver paura davvero del terrorismo siano i governi piuttosto che l'uomo della strada. Il paradosso è che l'autorità della conoscenza è diminuita. Siamo pervasi periodicamente da sentimenti apocalittici senza che la razionalità scientifica riesca a dare un senso: oggi è l'influenza suina il pericolo per l'umanità, domani la nevicata eccezionale. Noi siamo diventati un pubblico passivo della politica, mentre le classi dirigenti si ritirano sempre di più in se stesse e non hanno nessuna idea di futuro che non sia fondata sulla paura stessa del futuro».

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I libri di Furedi in italiano
Frank Furedi è professore di Sociologia presso l'Università del Kent, in Gran Bretagna. Tra i principali interpreti delle trasformazioni della società contemporanea, è editorialista - tra gli altri - della rivista "Spiked" e del quotidiano "The Guardian". Nei suoi lavori ha delineato l'emergere di una cultura della paura, sia per le sue implicazioni socio-educative, sia per quelle ambientali, concentrandosi sullo statuto epistemologico e politico del principio di precauzione. Alcuni dei titoli in inglese sono "Politics of Fear" e "Invitation to Terror". In italiano sono disponibili: "Che fine hanno fatto gli intellettuali? I filistei del XXI secolo" (Milano 2007) e "Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana" (Milano 2008).

Liberazione 25/09/2010, pag 8

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