Strumentalizzato l'ingresso di soci libici. L'opposizione: «A rischio la credibilità del sistema bancario italiano»
Roberto Farneti
C'è del marcio nella vicenda che ha portato Alessandro Profumo a rassegnare le dimissioni (non confermate e sulle quali in serata è "esploso" il giallo) da amministratore delegato di Unicredit. Dopo 13 anni passati alla guida di quello che, attraverso la fusione con Capitalia, è diventato il secondo gruppo bancario italiano, Profumo ha formalizzato ieri il suo addio con una lettera al consiglio di amministrazione dell'istituto di credito di Piazza Cordusio. Il manager è arrivato alla sofferta decisione di lasciare l'incarico al termine di un ampio giro di consultazioni, che ha coinvolto anche diversi esponenti politici. Preso atto di non avere più la fiducia della maggioranza del board, si è comportato di conseguenza, anche per evitare scontri tra soci nel corso del consiglio di amministrazione che si è successivamente riunito nella tarda serata di ieri (ancora in corso mentre scriviamo).
Profumo paga le conseguenze della bufera che si è abbattuta sul sistema bancario mondiale, innescata dalla crisi dei mutui ad alto rischio negli Stati Uniti. La scomparsa dei forti utili e dividendi cui aveva abituato il mercato e i soci hanno fatto deflagare le tensioni esistenti da anni contro di lui. A fare da miccia, nell'occasione, è stata la questione libica, ovvero l'ingresso nell'azionariato della Banca centrale libica - che detiene il 4,99 per cento - e quello del fondo Libyan Authority Investment (Lia), che ha ufficializzato alla Consob di essere salito al 2,594 per cento.
Una notizia che ha destato scandalo e che è stata presa al balzo dagli azionisti tedeschi, a partire dal Presidente dell'istituto Dieter Rampl, e da alcune delle Fondazioni azioniste della banca per presentare il conto all'amministratore delegato. A nulla è servito l'intervento in favore di Profumo di uno dei principali azionisti di Unicredit, Salvatore Ligresti che aveva spezzato una lancia a favore dell'ad dichiarando: «Sono favorevole alla stabilità».
Una partita tra soci, ma anche politica. Lo si capisce dalle parole pronunciate dal sindaco di Verona, il leghista Flavio Tosi, dopo le dimissioni di Profumo: «Adesso gli organismi di controllo, Bankitalia, Consob, fermino la scalata libica a Unicredit».
In realtà, non c'era e non c'è nessuna scalata libica all'orizzonte, ma solo un'operazione di ricapitalizzazione gestita da Unicredit per ottenere soldi freschi necessari per fronteggiare la crisi. E siccome per un capitalista il motto "pecunia non olet" è sempre valido, l'operazione è andata in porto. Profumo ha forse "commesso l'errore" di accettare la ciambella di salvataggio che gli è stata offerta grazie ai buoni uffici del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, noto amico del leader libico Gheddafi.
C'è quindi una evidente strumentalità nell'agitare lo spauracchio della Libia da parte della Lega. Come si spiega? Massimo Calearo, deputato dell'API, azionista di Unicredit ed ex presidente di Federmeccanica, un'idea ce l'ha: «E' palese - dice Calearo - che tramite le fondazioni una certa politichetta di parte che si chiama Lega vuol mettere le mani su quel tesoretto, il tesoretto delle fondazioni, a partire da Verona in avanti. Si chieda a Tosi come mai va così d'accordo coi democristiani che da sempre governano la fondazione». Toni duri anche dal Pd: «L'assalto del partito di Bossi - il commento del capo della segreteria politica di Bersani, Filippo Penati - mette a rischio la credibilità del sistema bancario italiano in un momento delicato nei mercati internazionali. D'altronde la Lega si era già occupata di banche, vicenda finita male, conclusa con il fallimento dell'istituto Credieuronord».
La redditività rimane la principale sfida del successore di Profumo. Del resto era stato lui stesse di recente a dire che il gruppo deve realizzare almeno 6 miliardi di utile l'anno per ripagare i soci. Invece Unicredit, nonostante abbia evitato la nazionalizzazione e le maxi perdite delle rivali britanniche e tedesche, ha visto l'utile scendere dai quasi 6 miliardi del 2007 a quota 4 del 2008 dimezzandosi a 1,7 nel 2009 e calando del 39% nel secondo semestre dell'anno. Una parabola discendente che ha portato il dividendo, "linfa vitale" per le fondazioni azioniste che finanziano così ospedali, università e opere sociali, a ridursi a un terzo nel 2008 per di più assegnato quasi esclusivamente sotto forma di azioni che intanto perdevano valore.
Liberazione 22/09/2010, pag 2
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