giovedì 30 settembre 2010

Muhammar Gheddafi il gendarme panafricano

Gian Paolo Calchi Novati storico responsabile del programma Africa all'Ispi

Tonino Bucci
Tutto si può pensare sulla figura di Gheddafi tranne che non abbia un'abilità particolare nel far parlare di sé. Leader senz'altro attento alle scenografie del potere, in perenne ricerca di una leadership globale nel continente africano, incapace di resistere del tutto a quelle sue intuizioni estemporanee che gli hanno guadagnato fama di politico volubile e, al limite, folclorico. I suoi comportamenti davanti alle telecamere, specie nell'ultimo viaggio in Italia, hanno indotto i media a soffermarsi solo sugli aspetti costumistici. Ci si aggiunga anche la proverbiale inclinazione al provincialismo dell'informazione italiana e il quadro è completo. Ne abbiamo parlato con Gian Paolo Calchi Novati, docente all'università di Pavia, oltre che responsabile del programma Africa per l'Ispi di Milano.

Gheddafi non è mai stato tenero con i gruppi fondamentalisti. Da dove nascono le frasi sull'Islam destinato a diventare religione globale? Solo folclore, solo provocazione?
La strategia di Gheddafi è sempre stata quella di non urtare sul piano politico, ideologico e normativo l'Islam e la legge coranica. Il che non significa aver sposato le tesi fondamentaliste. Il famoso Libro Verde conteneva un richiamo all'Islam a partire dal colore. Ma se si guarda al suo contenuto, si tratta di un discorso tipicamente mondano. Il Libro Verde era una teorizzazione della cosiddetta terza via tra socialismo (o comunismo) e capitalismo, quindi qualcosa che richiamava l'organizzazione sociale, le scelte politiche, la lotta tra gruppi di interesse e persino temi di vita quotidiana. Le affermazioni pronunciate nell'ultimo viaggio in Italia sono probabilmente una copertura verso il mondo musulmano. Gheddafi è un leader che non si presta a assecondare le spinte fondamentaliste, però non vuole neppure essere scoperto di fronte all'accusa di essere fuori dall'ortodossia.

Le dichiarazioni sull'Islam, quindi, erano più rivolte all'interno che non alle comunità musulmane presenti in Italia o in Europa?
Non esiste una diaspora libica significativa. I pochi libici sparsi per il mondo sono oppositori. Gheddafi non ha dietro o davanti a sé i maghrebini, ad esempio, che hanno l'Algeria, il Marocco, la Tunisia. In un mondo futuro in cui le diaspore del sud dentro il nord saranno se non l'unico, il collegamento più importante tra il nord sviluppato e il sud globale, la Libia partirà svantaggiata. Allora può darsi che Gheddafi aspiri ad assorbire nella sua sfera d'influenza ideale e virtuale i musulmani, ovunque essi siano, in cerca di una leadership e di una tutela.

In passato Gheddafi ha sempre tentato di conquistarsi una leadership globale sul continente africano. Può ancora oggi esercitare un'attrattiva?
In effetti la prima scelta di Gheddafi è il panarabismo. Lui nasce come figlio di Nasser. Sostenne a lungo di aver avuto una sorta di investitura nel suo unico colloquio avuto con Nasser. Tutte le sue avances verso l'Egitto e il Sudan erano il tentativo di offrire la sua leadership e le sue ricchezze a uno Stato più solido della sola Libia. Poi è andato a cercarsi alleanze più improbabili con il Marocco e la Tunisia o addirittura con la Siria e l'Algeria. Quando tutti questi tentativi sono naufragati di fronte alla vera e propria guerra fra la Libia e l'Egitto di Sadat, Gheddafi si è riconvertito sull'Africa cercando degli spazi. Ha avuto diverse possibilità, prima con la cosiddetta Africa sahelo-sudanese, poi con l'Unione africana. Oggi però Gheddafi ha qualche problema. All'interno del suo paese c'è una fortissima minoranza di immigrati dai paesi africani che costituiscono da una parte una ricchezza perché la Libia ha una carenza di manodopera, ma dall'altra sono visti come una minaccia. A mano a mano che questi stranieri si inseriscono nella società e nell'economia libica suscitano rivalità, gelosie e diffidenze. Questo causa il sospetto che ci sia da parte dei libici una forma di razzismo contro gli africani neri. La stessa cosa si verificò quando i tunisini divennero i padroni di tutto il commercio in Libia e iniziarono perciò ad essere percepiti come troppo invadenti. Ma lì era più difficile parlare di razzismo.

Gheddafi oggi è un gendarme di frontiera con il compito di bloccare i flussi migratori diretti dall'Africa subsahariana verso l'Europa. Questo ruolo non gli pregiudica la credibilità che si è costruito negli anni nei confronti del continente africano?
Sicuramente è una grossa contraddizione e non si sa come riuscirà a gestirla. La verità è che lui ha utilizzato questo argomento per accreditarsi sulla scena internazionale attraverso l'Italia. La Libia è l'unico paese a non aver mai partecipato alle riunioni collegiali in sede mediterranea. Non ha firmato nessun accordo con l'Unione Europea. Solo durante la Commissione presieduta da Prodi ci fu un incontro informale. L'Italia e, per certi aspetti, la Francia, sono stati degli intermediari - anche se la Francia non è molto interessata all'immigrazione che passa per il canale libico. Ma l'Italia lo è. E Gheddafi ha sfruttato la situazione. Ora si trova di fronte a una politica che comporta grosse contraddizioni con la sua posizione di leader dell'Africa. Alterna la mano dura con alcune aperture, tipo la chiusura dei campi e la liberazione di alcuni profughi eritrei.

La Libia ha grandi spazi, grossi proventi economici derivanti dal petrolio, uno stato sociale con pochi casi uguali in Africa. In questi anni s'è formata una classe media. Come cambierà il paese?
Ci sono i segnali di una svolta nella politica degli investimenti e nella distribuzione del reddito. Ci si rende conto di dover sostenere l'ascesa della classe media e uscire, prima o poi, dalla monocoltura degli idrocarburi. E poi c'è anche un risvolto esterno. La Libia pur avendo capitali ha bisogno di tecnologie, mercati e collegamenti internazionali attraverso l'Italia. Questo è anche ciò che verosimilmente chiede a Gheddafi lo strato sociale che più ha beneficiato dello sviluppo, della crescita e della modernizzazione della società libica. L'isolamento del passato significava per il ceto medio in ascesa rinunciare a viaggi all'estero, all'accesso alle università straniere e a contatti di vario genere. Ora c'è un problema di trasformazione del volto della società libica, ma è un processo difficile da sostenere in un paese abituato al verticismo e nel quale i gruppi sociali in formazione non hanno una vera rappresentanza politica. Gli accordi con l'Italia o con paesi terzi sono visti - secondo me con qualche esagerazione - come un aiuto in questa trasformazione. L'autostrada in realtà, oltre all'aspetto infrastrutturale può essere immaginata come una disseminazione nel territorio di piccole o medio-grandi iniziative economiche. Ma di nuovo anche questo rapporto con l'Italia non è privo di complicazioni. Gheddafi, è vero, ha colpito soprattutto il grande imperialismo piuttosto che il piccolo colonialismo italiano, ma in più occasioni è stato molto duro con le varie infamie commesse dagli italiani in Libia.

Le accuse di Gheddafi al colonialismo italiano in Libia saranno anche strumentali, però da qui a considerare tutto folclore ce ne passa. Il rapporto degli italiani con il proprio passato colonialista è ancora ambiguo, non le pare?
L'Italia ha dimostrato di non avere davvero recepito l'atto di contrizione fatto un po' opportunisticamente da questo governo e abbozzato anche dal precedente governo Prodi. L'opinione pubblica del nostro paese continua paradossalmente a pensare che nella nostra esperienza coloniale gli italiani abbiano avuto più meriti che colpe. Persino il dibattito politico in occasione dell'ultimo viaggio di Gheddafi in Italia mi pare sia stato molto misero. Secondo me il punto non è che esista un rapporto con la Libia, nella prospettiva della politica internazionale non sarebbe pensabile non avere nessuna relazione con vicino così vicino. Il problema, semmai, è il compito sgradevole che la Libia si è addossata di tenere lontani dalle nostre sponde gli africani che in molti casi sono figli degli ex sudditi coloniali italiani. Molti dei respinti vengono dal Corno d'Africa. Negli ultimi anni è aumentato il flusso dei migranti provenienti dall'Eritrea, dalla Somalia e dall'Etiopia. Paradossalmente la Libia che ha subito la guerra degli ascari, oggi fa l'ascaro della politica italiana di respingimento degli eritrei che una volta invece alimentavano le truppe coloniali. L'impressione è che ogni tanto Gheddafi debba rialzare la tensione e impuntarsi su qualcosa per non dare l'idea che con l'Italia la partita sia ormai chiusa.

Liberazione 23/09/2010, pag 12

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