giovedì 3 febbraio 2011

Mcworld contro Jihad, che bufala. Oramai nessuno ci crede più

Il protagonismo delle società civili nel Medioriente smentisce il cliché dell'integralismo vs americanismo
Tonino Bucci
«Le possibilità di conoscere gli Stati Uniti e l'Europa che ha il musulmano "medio" sono in realtà assai superiori a quelle che ha l'americano "medio" di conoscere e apprezzare le culture e le società arabo-musulmane». Non è che le cose siano cambiate molto rispetto a quando, un paio d'anni fa, uno storico statunitense del Medio Oriente, di nome MarkLeVine, annotava questa riflessione nelle pagine introduttive del suo libro, Perché non ci odiano. La vera storia dello scontro di civiltà (pubblicato da DeriveApprodi, pp. 320, euro 20). E' più facile che ci sia una conoscenza, diretta e indiretta, delle società occidentali nei paesi islamici che non il contrario - come pure è più frequente registrare una maggiore apertura alla globalizzazione in certi fenomeni culturali delle società civili maghrebine o mediorientali piuttosto che nei tratti provinciali della cultura in "casa nostra". Salvo poi rendersene conto all'improvviso, quando si viene presi alla sprovvista all'occorrenza di eventi inaspettati, per consistenza e per dimensioni. Il riferimento, come ovvio, è alle rivolte popolari in Tunisia e in Egitto. E' come se, assieme alle immagini diffuse in contemporanea in tutto il mondo, la dimensione globale del Mediterraneo avesse fatto irruzione nei nostri orizzonti domestici.
Il primo dato evidente è la scarsa conoscenza degli aspetti culturali e sociologici della globalizzazione. Per lungo tempo ci si è limitati a leggere la globalizzazione come un processo dagli esiti già scritti. Già negli anni Novanta, in uno scenario post-guerra fredda, l'opinione più diffusa era che la globalizzazione avrebbe prodotto una «cultura globale omogenea - così scrive Mark LeVine - in cui tutte le differenze e diversità sarebbero state cancellate dalla "cocacolonizzazione", dalla "disneylandizzazione", dalla "Mcdonaldizzazione" o, semplicemente, dalla "americanizzazione". Tutti, lo volessero o meno, sarebbero col tempo diventati "proprio come Topolino", cioè come gli Stati Uniti». Si è sottovalutato, insomm, la presenza nelle società maghrebine o mediorientali di una capacità culturale di adattamento e rielaborazione. «Si ignora il fatto che che le culture e le persone sono in pieno possesso sia della forza che del potere necessari a opporsi o, come spesso accade, ad adattarsi alle altre culture, inclusa quella americana. Inoltre si corre il rischio di accettare l'idea che nessun'altra cultura "globale" sarà mai in grado di competere con i prodotti americani». Ma davvero l'american way of life è l'unica cultura globale, davvero non esistono altre costruzioni culturali in grado di competere con essa? Se a dirlo è un americano, c'è da scommetterci che l'antiamericanismo non c'entra nulla. «La maggior parte dei musulmani non odia l'America in sé». Semmai è l'americanismo come forma ideologica del consumismo, un «virus globale che colonizza gli individui uno alla volta, finché non vengono assimilati all'interno del perfetto funzionamento della logica di produzione». Sarebbe però sbagliato pensare - per tornare al tema di partenza - a un deserto colonizzato da un'unica cultura globale. «In quasi tutto il Terzo mondo, infatti, i prodotti culturali americani devono affrontare l'agguerrita concorrenza delle loro controparti locali (vedi il cinema indiano o le telenovelas latinoamericane». Il fatto che i film siano in origine un'invenzione americana non vuol dire che ogni cinematografia sia una forma d'americanismo, il che sarebbe tanto insensato quanto l'affermare che gli spaghetti sono un prodotto esclusivamente cinese. Anzi, si verifica a volte il flusso inverso di fenomeni culturali rielaborati altrove che entrano negi Usa, «come il reggae o la chitarra surf - inventata dal libanese-americano Dick Dale».
La trama del mondo è molto più complessa di quanto, in anni passati, ha lasciato intravedere il linguaggio binario di Samuel Huntington, l'artefice della tesi dello scontro di civiltà. La narrazione di una guerra planetaria tra due opposte filosofie, McWorld contro Jihad, è andata in frantumi. Era sbagliato ieri, a maggior ragione è sbagliato oggi, «considerare la Jihad come l'unica forma di resistenza alla globalizzazione iperconsumista, in particolare dopo che gli attivisti del movimento globale - di cui LeVine fa parte - hanno dimostrato come anche i più radicali oppositori della globalizzazione possano definirsi in termini aperti e positivi».
Le vie infinite delle culture nella globalizzazione sono ancora più visibili in alcuni fenomeni musicali. «All'inizio di questo libro ho segnalato - parole di LeVine, il quale oltretutto ha alle spalle un passato di chitarrista professionista - una strana somiglianza tra le esibizioni del leader dei Led Zeppelin Robert Plant e quelle della star libanese Naiwa Karam». Un legame profondo, che «viaggia lungo la "via gitana", che ha portato la musica e le culture del Medio Oriente in Africa, e da qui, con la tratta degli schiavi, fino alle Americhe. A partire da qui ha influenzato la nascita del blues, della musica country e bluegrass (anche se probabilmente pochi fan del country sarebbero contenti di sapere che la loro musica non sarebbe mai esistita senza l'influsso dell'Islam), fino alla nascita del rock' n' roll e alle blues band inglesi come gli Zeppelim, per poi tornare ancora in Medio Oriente quanto Plant e i suoi compagni si sono innamorati della musica araba». Sembra un giro tortuoso, ma pare sia proprio così. Il blues deriva dalla chiamata alla preghiera araba e da altri tipi di musica religiosa islamica, portati n America dagli schiavi africani musulmani. Insomma, «se una precedente generazione di cantanti e musicisti neri si è ispirata ai ritmi, agli strumenti e ai canti musulmani per fare del blues un'arma di critica e di sfida alla società in cui viveva, non dovrebbe sorprenderci che una giovane generazione di artisti usi un genere musicale dissonante e a volte pericolo - l'hip hop - come mezzo per politicizzare la sua visione dell'Islam».


Liberazione 01/02/2011, pag 8

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