giovedì 3 febbraio 2011

Dateci una scienza per decifrare il mondo globale

"Il paradigma geopolitico", un saggio di Emidio Diodato, docente di scienza politica
Tonino Bucci
Lo chiamano in molti modi - esperto di relazioni internazionali, di geostrategia, persino di geoeconomia - sta di fatto che la presenza dello studioso di geopolitica è diventata d'obbligo nei giornali e nelle trasmissioni politiche. Il ritorno d'interesse per questa disciplina - dai contorni un po' ambigui, ammettiamolo - testimonia di una difficoltà a leggere il mondo contemporaneo. Se non altro pare oggi impossibile continuare a rappresentarci il pianeta con le categorie della globalizzazione - perlomeno con quelle più ingenue. Il globo sconvolto dalla più grave delle crisi economiche dal '29 a oggi, non è più pensabile come un unico spazio omogeneo, nel quale gli unici software legittimati a "girare" siano quelli del mercato e della democrazia liberale stile occidentale. Il mondo è cambiato e la complessità del suo hardware non si presta più a facili reductio ad unum. In questo senso appartiene davvero al passato la profezia sull'estinzione dello Stato nazionale - che comunque, anche lui, non è più quello di una volta. Lo stesso vale per l'altra profezia, secondo la quale la la globalizzazione avrebbe portato all'instaurarsi di un unico ordinamento politico transanazionale, un solo impero di dimensioni planetarie, un unico comando capitalistico. La crisi economica, l'irrompere sulla scena planetaria di subcontinenti produttivi e popolosi - la Cina e l'India - il protagonismo e le rivolte all'interno del mondo arabo, l'instabilità del mondo mediterraneo, dall'Albania alla Grecia, stanno cambiando l' immagine del globo.
Forse è per questo che la geopolitica torna a riscuotere l'attenzione dei media. Quantomeno non appare più nelle vesti di «un vecchio dispositivo culturale che molti hanno tentato di disattivare o rendere innocuo» - come scrive Emidio Diodato in un saggio uscito qualche mese fa per Meltemi, Il paradigma geopolitico. Le relazioni internazionali nell'età globale (pp. 288, euro 22). «Occorre sgomberare il campo dall'idea che il pensiero geopolitico si riferisca a una dottrina reazionaria o bellicista delle relazioni internazionali».
Il dibattito geopolitico, storicamente parlando, è nato in un passaggio epocale: nel momento in cui l'occidente, al culmine dell'espansione coloniale, cominciò a percepire il proprio declino. «L'obiettivo della geopolitica fu quello di analizzare le possibilità di un concreto ordinamento post-eurocentrico del globo terrestre». Può sembrare un paradosso, ma non lo è. L'apice del dominio coloniale coincide con lo spostamento della scena principale dall'Europa all'intero pianeta. I primi segnali di questa «svolta teorica» si rintracciano già all'inizio dell'Ottocento, quando «studiosi molto diversi tra loro, come Hegel e Tocqueville, iniziarono a presagire la perdita di centralità del continente europeo, investito dagli effetti di modernizzazione della rivoluzione industriale e della rivoluzione francee, ma costretto ad assistere al sorgere di due nuove potenze extraeuropee di dimensioni continentali a Oriente e Occidente», la Russia e gli Stati delle Americhe.
Le idee geopolitiche non rimangono confinate nel dibattito teorico, ma diventano lo strumentario ideologico delle élite politiche europee all'alba del Novecento, accomunate dalla percezione di uno spazio geografico limitato e dall'imperativo di espandere il territorio nazionale (argomento di un saggio di Heffernan del 2000, Fin de siècle, fin du monde?). «L'espansione fu considerata necessaria e l'immobilismo pericoloso». E' opinione generale che «l'ambito dell'agire politico potesse oramai essere indagato solo a livello globale». Nella seconda metà del secolo scorso avviene una rottura con la geopolitica tradizionale, soprattutto per opera degli studiosi di critical geopolitics. La novità sta nel metodo, nel «modo di concepire lo spazio e il rapporto tra politica e geografia». Non c'è più uno spazio geografico che viene prima delle comunità politiche che si organizzano territorialmente. Per i contemporanei vale il contrario, è l'assetto politico del potere che determina la geografia. Ma soprattutto è ormai sparita la logica inside-outside. Non c'è più un mondo là fuori e un dentro, lo Stato, da cui esso possa essere osservato. Nel dibattito geopolitico contemporaneo si è imposto un paradigmatic shift di tipo olistico per lo studio delle relazioni internazionali, che non distinguono più tra dentro e fuori. Lo spazio politico è diventato uno spazio definitivamente globale».
In questo senso, geopolitica è quasi sinonimo di globalizzazione: entrambe si riferiscono a una scala globale e chiamano in gioco la necessità di una «scienza politica del globale». Però si distinguono - per tornare al punto di partenza del discorso -ogni volta che la globalizzazione assume valore di retorica, di rappresentazione edulcorata del mondo, «di un prcesso neutrale e irreversibile basato sui diritti umani e la produzione di un benessere indifferenziato». Ci sono tutte le ragioni, oggi, per affermare che il divenire globo della sfera terrestre non è un «processo neutrale e omogeneo». Nulla a che fare, insomma, né con la tesi della fine della storia di Fukuyama (l'occidentalizzazione di tutto il mondo) né con il modello «uni-multipolare» avanzato da Huntington col suo scontro di civiltà, che comunque presuppone aree geoculturali macroscopiche omogenee al loro interno. Semmai risulta più utile il modello olistico di relazioni internazionali elaborato dagli statunitensi Harold e Margaret Sprout, «per cui ogni luogo deve la sua esistenza alla tenuta di un insieme o di una struttura globale»: da una parte, un livello locale o regionale nel quale si muovono Stati nazionali e altre istituzioni politiche; dall'altro, un livello macro-strutturale o globale, nel quale agiscono condizioni imprescindibili, come trasporti, telecomunicazioni, risorse energetiche, rischi ambientali. E' possibile conoscere la direzione del treno della storia? Non è chiaro se il pianeta sia in una fase di transizione (verso cosa?) oppure «se si tratti di una condizione permanente, una nuova struttura di potere internazionale articolata su più livelli di potenza». Un mondo a «polarità complessa» dove oltre a Usa e Cina possono essere inclusi alternativamente i paesi dell'Ue, la Russia, il Giappone, l'India e via dicendo.La principale incertezza rigarda l'area del Medio Oriente. Non che l'islam sia «una categoria esplicativa onnicomprensiva», tuttavia è da lì che viene la sfida ai governi arabi: dai gruppi islamici radicali, ma anche da un nuovo spazio pubblico di discussione, non statali, creato dalle televisioni satellitari e dal web. Una forza politicamente rilevante - come vediamo in questi giorni - che può mettere in crisi i governi autocratici dell'area.


Liberazione 30/01/2011, pag 9

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