sabato 28 agosto 2010

La sinistra che non può vivere se non immagina un altro futuro

"L'assalto al cielo", un libro che raccoglie gli atti di un convegno sulle ragioni del comunismo

Tonino Bucci
Piangersi addosso è inutile. Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere scriveva Spinoza nel Trattato politico per esemplificare lo stile di vita da prendere a modello. Non ridere, non piangere, non odiare, ma comprendere. Non che manchino motivi per autocommiserarsi alle forze che ancora oggi, a vario titolo, si riconoscono nella grande tradizione comunista. In alcuni paesi, quelli un tempo appartenenti all'ex blocco socialista, i partiti comunisti sono stati travolti da un processo di damnatio memoriae che ha finito col criminalizzare l'intera storia del comunismo - e, in via speculare, col riabilitare parzialmente i crimini commessi dai nazisti sul fronte orientale durante la Seconda guerra mondiale. In altri paesi, oltre alla memoria storica, è stata spazzata via anche l'agibilità politica dei partiti comunisti, privati della stessa possibilità di usare i propri simboli, messi fuori legge. Persino in Italia, dove il partito comunista ha giocato un ruolo nazionale determinante, nella lotta antifascista, nella Resistenza, nella scrittura della Costituzione, nella costruzione della Repubblica, nell'organizzare masse storicamente distanti dalla politica, si registra oggi una delegittimazione mirata a cancellare i comunisti dal discorso pubblico e dalla memoria storica del paese. Dallo scioglimento del Pci a oggi sono trascorsi vent'anni, un ventennio di sconfitte e di arretramenti. Il panorama che si offre allo sguardo presente indurrebbe allo scoramento chiunque sia dotato di un minimo senso di realismo. La galassia della sinistra è polverizzata in piccole formazioni, poco efficaci e perciò dotate di scarso appeal agli occhi degli elettori.
Cosa ne è oggi delle ragioni che nel Novecento hanno fatto del comunismo un movimento di dimensioni planetarie in grado di scrivere la storia? Se lo chiedono gli autori che hanno partecipato al volume collettivo L'assalto al cielo, sottotitolo Le ragioni del comunismo, oggi (edizioni La Città del Sole, a cura di Marco Albeltaro, pp. 132, euro 12). Le contraddizioni che Marx aveva meticolosamente descritto nel Capitale sono tutt'altro che sparite dalle società capitalistiche attuali. Sfruttamento del lavoro, crisi economica, devastazioni ambientali, involuzioni autoritarie, razzismo, rischio di soluzioni alla Weimar, pericolo di contraccolpo nelle classi medie, avanzata della destra e tanto altro ancora si potrebbe aggiungere a dimostrazione che ancora oggi un punto di vista comunista può esibire - rispetto alle visioni del mondo concorrenti - un sufficiente livello di verità nel descrivere le strutture profonde della società. Perché mai, allora, tra il discorso dei comunisti e la coscienza comune rimane una frattura, uno iato?
Mai come oggi la crisi politica della sinistra coincide con la crisi della teoria, con la difficoltà di elaborare un punto di vista sistemico. Lo spappolamento delle organizzazioni politiche di classe ha generato nella sinistra anche una confusione di punti di vista, di linguaggi, di rappresentazioni del mondo. Quell'ampia fetta di società italiana che abitualmente veniva indicata con l'etichetta di "popolo di sinistra" è diventata terra di conquista per forze politiche estranee alla tradizione del movimento operaio (come l'Italia dei valori) e, persino, per le ideologie dominanti dell'avversario, come il leghismo o il berlusconismo. Sulla superficie della società sono visibile le stesse caratteristiche che Gramsci, nei Quaderni, attribuiva al senso comune: «il suo carattere fondamentale è di essere una concezione del mondo disgregata, incoerente, inconseguente». Appunto. Non è sufficiente sperimentare il disagio sociale sulla propria pelle per riuscire a connettere la causa delle proprie sofferenze al funzionamento della società capitalistica. Si può essere disoccupati, precari, cassintegrati e convinti, al tempo stesso, che la causa di tutti mali sono gli immigrati o i troppi pensionati o le eccessive tutele previste dal contratto nazionale a difesa di immaginari lavoratori "ipergarantiti".
Se ci fermassimo alla superficie delle cose, così come queste si presentano a prima vista, sarebbe meglio smettere di parlare di comunismo e lasciar perdere. Ma l'apparenza non contiene tutta la realtà e non tutto quello che si vede a occhio nudo ha il livello di verità di quel che si muove nel sottosuolo della società. Per dirla in altro modo, se il punto di vista dei comunisti è quasi sparito dal senso comune del paese non è affatto detto che quel punto di vista non possa elaborare un suo discorso di verità.
Il problema era già noto a Gramsci. «Ogni rivoluzione - scriveva - è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovano nelle stesse condizioni». L'assalto al cielo rischia d'essere un mito nostalgico, il comunismo una moda retrò, l'anticapitalismo un discorso retorico se agli occhi del popolo di sinistra appaiono insufficienti a render conto della vita, dei bisogni, delle condizioni reali. Non ci sono scorciatoie a un lavoro di scavo teorico. La frattura tra masse subalterne e riferimenti politici tradizionali è talmente profonda oggi che «sarebbe del tutto illusorio - come scrive Burgio - pensare che la condizione sociale e lavorativa parli da sé, spinga automaticamente a sinistra e verso opzioni critiche. Non è così. Il nesso tra condizione sociale e opzione politica è sempre stato complesso e oggi lo è più che mai». Gramsci - ancora lui - la chiamava «connessione sentimentale»: nel senso di una conoscenza che dovesse essere non calata dall'alto, a mo' di filastrocca, bensì radicata nella concretezza dell'esperienza. Come si trova il giusto equilibrio tra la necessità di una teoria organica, di un modello analitico capace di render conto dell'aspetto sistemico della società, da un lato, e l'altrettanto necessario studio della molteplicità di fenomeni del nostro tempo? «Credo - ancora Burgio - che lo sforzo di analisi della realtà da parte nostra debba tenere sempre sullo sfondo l'analisi del modo di produzione e mai prescinderne quando la lente si concentra sull'analisi di specifiche contraddizioni (la questione dell'ambiente, la differenza di genere, i problemi della democrazia, la questione della pace e della guerra, il risorgente incubo del razzismo)». A patto che ciò non implichi alcuna forma di economicismo o gerarchia di importanza tra questioni economiche ed altri temi. Ma c'è anche chi vede la necessità di elaborare una concezione autonoma della democrazia, come Gian Mario Bravo, capace di tenere assieme l'«autogoverno dei produttori» (di marxiana memoria) con il «governo delle leggi», democrazia formale e democrazia sostanziale, solidarismo e aspetti procedurali. E che la «questione del potere politico» sia centrale «per la transizione al socialismo», lo ricorda anche Andrea Catone. Chissà che qualcosa non si possa imparare - come suggerisce Antonino Infranca - dall'America Latina. E chissà se - per dirla con le parole di Imma Barbarossa - non occorra cominciare a distinguere la rivoluzione degli uomini dalla rivoluzione delle donne.

Liberazione 25/08/2010, pag 8

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