Raccolti per gli Editori Riuniti i saggi principali di Hans Georg Backhaus, allievo di Theodor W. Adorno
Enzo Modugno
Questo libro, Dialettica della forma di valore di Hans-Georg Backhaus, restituisce quella straordinaria stagione francofortese che ebbe il suo culmine negli anni '60 e che non ha affatto esaurito la sua "spinta propulsiva". L'atmosfera è quella di una rovente assemblea teorico-politica. Sullo sfondo, come in una celebre foto, la testa rotonda di Adorno imbronciato per gli attacchi di Krahl che gli siede accanto, per le obiezioni di Backhaus, Reichelt, Schmidt. Argomenti fondamentali esposti con grande chiarezza, si è tentati di intervenire, gli stessi curatori lo fanno, chiunque legga questo libro vorrà farlo. Persino il recensore.
Lo scambio è la chiave della società, aveva detto Adorno. Tuttavia per i suoi allievi non si tratta semplicemente dello scambio generalizzato, ma piuttosto della forma specifica che esso assume nel modo di produzione capitalistico: è per questo che si impegnano nella "ricostruzione" della teoria marxiana del valore, ricerche note come Neue Marx-Lektüre, condotte soprattutto da Hans Georg Backhaus, Helmut Reichelt, Alfred Schmidt. Sono ora raccolti per gli Editori Riuniti i saggi principali di Backhaus, a cura di Riccardo Bellofiore e Tommaso Redolfi Riva, (pp. 549, euro 18,00). I curatori hanno voluto rendere omaggio a Emilio Agazzi che, a metà degli anni '80, aveva tradotto e commentato una parte di questi saggi.
Per valutare appieno questa "ricostruzione" è però necessaria una premessa. György Lukács è stato il primo degli interpreti di Marx ad accorgersi, nel 1923, dell'importanza dell'analisi del "feticismo" contenuta nel primo volume del Capitale. Quindi nell'ambito del «marxismo occidentale» e in particolare nella Scuola di Francoforte (ma anche in Francia e in Italia), si affermò l'esigenza di sottrarre l'opera di Marx al dogmatismo di stato sovietico e alle interpretazioni economicistiche anglosassoni: nel caso della teoria del valore vi era la consapevolezza che fosse più complessa di come era stata interpretata non solo dai suoi critici, ma anche dalla quasi totalità dei suoi seguaci. Fraintendimenti dovuti all'incomprensione del nesso che lega la teoria del valore alla teoria del denaro e all'analisi del feticismo, cioè del nesso inscindibile tra l'analisi "quantitativa" e l'analisi "qualitativa" del valore.
Per capire di cosa stiamo parlando basti pensare che anche oggi chi ritiene la teoria marxiana del valore inadatta ad interpretare le più recenti trasformazioni produttive, si riferisce - quando va bene - soltanto alla grandezza di valore, cioè ai rapporti "quantitativi" in base a cui le merci si scambiano tra loro (contro una teoria del valore-lavoro ridotta a questa dimensione non ha perso la sua forza la critica sraffiana di ridondanza). In realtà però non si tratta solo di questo, perché il lavoro che costituisce l'unità della merce non è solo quantum di lavoro contenuto, è anche lavoro "concreto", lavoro dell'individuo privato, in quanto tale incorporato in un prodotto determinato, in un valore d'uso particolare, ferro o grano (ed ora materiale o immateriale: che soddisfi «lo stomaco o la fantasia non cambia nulla»; con l'avvertenza che quell'"individuo privato" non è il singolo lavoratore, ma il lavoratore collettivo organizzato dal capitale in concorrenza con altri capitali). Ma questo lavoro privato "concreto" deve essere trasformabile da un valore d'uso in ogni altro, deve cioè presentarsi come il suo contrario, come lavoro sociale o "astratto", e può farlo solo con la sua alienazione, deve cioè essere esibito in denaro. E' questo il processo storico-sociale che sta dietro, e spiega, la formazione della grandezza di valore. E' questa opposizione dialettica tra lavoro "concreto" e lavoro "astratto" che definisce il modo di produzione capitalistico, ed è ciò che distingue Marx dagli economisti classici, nodo centrale della sua teoria del valore.
Gli economisti marxisti invece (con poche eccezioni come Sweezy, Grossmann, Claudio Napoleoni dei primi anni ‘70) hanno ignorato questa analisi "qualitativa" restando fermi alla grandezza di valore. Ma in questo modo, se Marx può essere ricondotto a Ricardo, la legge del valore ne risulta dimezzata, perde efficacia interpretativa, e per questo è stata spesso abbandonata. Se si perde quel presupposto del quantum di lavoro che è il lavoro "astratto", la legge del valore non riesce più a dar conto di tutte le contraddizioni del sistema: viene ridotta a un principio che tutt'al più ne spiega l'equilibrio.
Ancora oggi, per esempio, i «teorici della moltitudine» per lavoro "astratto" intendono lavoro immateriale, che invece può essere solo una determinazione del lavoro "concreto". Sono quindi senza analisi "qualitativa" e perciò non riescono a identificare le nuove figure della produzione né a stabilire come si formi oggi la grandezza di valore. Risolvono la questione facendo diventare produttivi di valore tutti i viventi e mezzo di produzione il cervello umano, considerato come lo strumento/utensile che ha sostituito la macchina capitalistica (A. Negri, Cinque lezioni su Impero e dintorni, 2003, p.29). Scompare la macchina, la teoria del valore, il concetto di "classe": l'umanità diventa una «moltitudine» di artigiani.
A questo punto, anche perché potrebbe trarre d'impaccio questi compagni, possiamo valutare l'importanza del libro di Hans Georg Backhaus. Una ricerca rigorosa e documentatissima ma, come ha notato anni fa appunto Emilio Agazzi su Unità Proletaria, con intenti filosofici e politici e non puramente filologici. Si rimanda ora anche ad una nota chiarificatrice di Massimiliano Tomba sul manifesto del 5 giugno.
E' al centro del discorso di Backhaus il nesso inscindibile tra teoria del valore e teoria del denaro nella critica dell'economia politica. La sua polemica è rivolta non solo contro il marginalismo e il filone neoricardiano, ma anche contro quei teorici marxisti secondo i quali i primi tre capitoli del Capitale, nei quali si tratta di merce e denaro e non ancora di capitale, rappresenterebbero una produzione mercantile semplice (interpretazione "storica" che fu proposta da Engels, e ripresa poi da Meek). E contro coloro che invece vi scorgono soltanto una prima approssimazione (Dobb, ma anche il primo Sweezy). Niente di tutto questo secondo Backhaus, si tratterebbe invece del movimento dialettico dell'esposizione delle categorie che si può cogliere solo con una rilettura e ricostruzione "logica" del Capitale. Di qui il rimando ad Hegel.
I curatori, si è detto, sono intervenuti anch'essi in questo dibattito tra i più approfonditi sull'opera di Marx. Tommaso Redolfi Riva ripercorre con grande chiarezza la complessa ricerca di Backhaus, evidenziandone lo stretto rapporto, e nello stesso tempo le differenze, col pensiero di Adorno.
Riccardo Bellofiore che, come Backhaus, ritiene inseparabili teoria del valore e teoria del denaro, si spinge ancora più in là con un giudizio parzialmente diverso sui primi tre capitoli del Capitale. La categoria di "scambio", che per Backhaus è metastorica, può determinarsi come "baratto" o come "circolazione" e nel secondo caso essa è intrinsecamente monetaria: parte da qui la "mossa" di Bellofiore. L'economia dello scambio universale monetario è, da subito, economia capitalistica. Lo scambio universale, chiuso tramite il denaro come equivalente generale, è fondato dal rapporto sociale capitalistico, "sfruttamento" del lavoro, in un movimento processuale che è aperto dal credito bancario come finanziamento della produzione. Di nuovo: valore-lavoro-denaro, ma come finanza, neovalore-lavoro vivo.
Bellofiore descrive così la fondazione autentica del valore-lavoro: il (neo) valore è oggettivazione del lavoro (vivo) a livello macro-sociale, perché quest'ultimo deve essere estratto dalla forza-lavoro di soggetti umani socialmente determinati, che possono resistere. Per questo il capitale è sempre e solo, secondo Marx, "consumo" del "corpo" dei lavoratori in carne ed ossa (e cervello): che il capitale deve sottomettere "realmente" nella produzione, ma anche, oggi, nella finanza (e contro un ragionamento del genere non ha presa la critica di ridondanza rivolta dai neoricardiani alla teoria marxiana del valore-lavoro).
Il progetto di Adorno così non viene cancellato, ma esteso e approfondito. La critica della società non può che tramutarsi in critica dell'economia politica - analisi della "costituzione" del rapporto di capitale, dove sfruttamento del lavoro vivo e determinazione monetaria del capitale sono le due facce di una stessa medaglia, che si tratta di ricostruire nell'intreccio di conflitto, crisi e ristrutturazione. Ma la critica dell'economia politica rimanda a sua volta alla critica della ragione estraniata.
Concludendo potremmo dunque osservare che se l'obiettivo polemico dei suoi allievi era importante (e le loro ricerche necessarie), Adorno ne aveva uno ancora più vasto, il pensiero reificato, che proprio nello "scambio" aveva fondato coazione e gerarchia e che, ormai cristallizzato in un apparato materiale, è diventato mezzo di produzione e prodotto del nuovo cybercapitale.
Il dibattito aperto dai «francofortesi» perciò non ha affatto esaurito la sua "spinta propulsiva" perché proprio oggi sia la critica adorniana che la "ricostruzione" della teoria marxiana del valore diventano fondamentali per l'analisi della forma assunta dal capitale negli ultimi decenni, per criticare, nella teoria e nella pratica, l'«economia della conoscenza».
Liberazione 08/08/2010, pag 8
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