Una riflessione su una tendenza artistica che a partire dagli anni '70 tese a legittimare ogni intrapresa culturale
Roberto Gramiccia
Il postmoderno non è solo una teoria, una visione del mondo e della storia. In arte, a partire dagli anni Settanta, è piuttosto il tessuto connettivo filosofico, l'impalcatura ideologica di una miriade di sperimentazioni che, a partire dalla Transavanguardia, hanno attraversato il panorama italiano e internazionale. Nel nostro paese le due figure che lo hanno in qualche modo incarnato sono Achille Bonito Oliva e Paolo Portoghesi. Due intellettuali appartenenti a quell'intellighenzia craxiana che negli anni Ottanta divenne dominante, sino al punto di modificare i destini della cultura (arte, architettura ecc.) e, perniciosamente, della nostra vita civile e politica.
Non vi è dubbio infatti che una delle correnti artistiche per cui siamo conosciuti nel mondo - oltre all'Arte povera - sia proprio la Transavanguardia. Movimento promosso proprio da ABO, alla fine degli anni Settanta, che fornì con indubbia tempestività e incisività la base teorica di un'esperienza destinata a divenire internazionale. Nomadismo e meticciato culturale, obliquità dello sguardo, ritorno alla pittura, genius loci ecc. furono alcune delle idee guida di questa weltanschauung artistica. Il riferimento alla storia del Manierismo fu effettivamente molto azzeccato. Ma per il resto le declinazioni di questo pensiero erano quelle che prenderanno compiutamente forma nella celeberrima La condizione postmoderna di Lyotard del 1979 e, dieci anni dopo, conosceranno la loro cristallizzazione più estremistica nella Fine della Storia di Fukuyama.
Ora non è nostra intenzione fare la storia del postmoderno. Quello che ci preme, semmai, è cogliere il nesso fra questo spartiacque del pensiero contemporaneo e la fine in arte del periodo delle neoavanguardie che negli anni Cinquanta, Sessanta e parte degli anni Settanta avevano trascinato con sé la versione aggiornata di una visione di prospettiva in qualche modo ancora modernista. La fine della modernità sarà certificata da Lyotard e ciò avrà delle conseguenze profondissime nella qualità complessiva della ricerca artistica del mondo occidentale. In particolare legittimerà qualsiasi forma di intrapresa culturale, determinando una confusione dei fini e dei mezzi che, come una nebbia ostinata, non si è più diradata.
Un'altra cosa che ci preme indicare a un pubblico più vasto di quello generalmente coinvolto in dissertazioni ritenute erroneamente erudite è la natura niente affatto innocente del Postmoderno, malgrado l'influenza di una sua rilettura creativa, buonista e indubbiamente accattivante che in Italia ha riscosso un notevole successo.
Ci riferiamo a Vattimo e al suo pensiero debole. Scrive Vattimo a proposito di una presunta prospettiva di emancipazione collocabile in una società massmediatica "persino caotica": «La tesi che intendo proporre è che nella società dei media, al posto di un ideale emancipativo modellato sull'autocoscienza tutta spiegata sulla perfetta consapevolezza di chi sa come stanno le cose (sia esso lo Spirito Assoluto di Hegel o l'uomo non più schiavo dell'ideologia, come la pensa Marx), si fa strada un ideale di emancipazione, la pluralità, e in definitiva l'erosione dello stesso "principio di realtà» (La società trasparente).
La pluralità di Vattimo promuove quella che viene definita la liberazione delle differenze, grazie alla quale - ancorché nel caos - una enorme galassia di multiformi "verità" (etniche, religiose, ideologiche, estetiche, culturali) prendono finalmente la parola. Si affermano come insieme di pseudocertezze tutte ugualmente plausibili. Un'agorà felicemente casinista resa possibile dalla funzione democratica e obiettivamente emancipativa della tecnologia mediatica. Saltate a piè pari le critiche dei Francofortesi sui media e la società dei consumi, si delinea il potenziale benefico di una società liberata da qualsiasi pensiero forte, che sia interessato a vedere le diversità insieme, però, anche a ciò che rende moltissimi uomini simili fra loro, cosette come: l'appartenenza di classe, la povertà, lo sfruttamento, la subordinazione al modo di produzione capitalistico. In politica, come in arte, viene bandita qualsiasi prospettiva unitaria. Ogni punto di vista è equivalente, di qui il nomadismo culturale ed estetico e la patente di legittimità rilasciata a tutti (ecco la ragione di molti degli orrori che si vedono in giro).
La molteplicità infinita dei punti di vista e la loro equivalenza fondano una nuova concezione del mondo, evidentemente anche estetica. Come simboli di questo mondo frantumato, i postmodernisti scelgono non per caso il labirinto e la torre di Babele. Il mito preferito è quello di Orfeo che continua a cantare anche dopo la morte per smembramento. In un mondo così non ha più senso andare alla ricerca di un "metavocabolario" che in qualche modo tenga conto di tutti i vocabolari possibili, «di tutti i modi di giudicare e sentire» (Rorty, La filosofia dopo la filosofia).
Un destino segnato, insomma, dentro il quale è ammessa unicamente un'attività generale di fibrillazione dei pensieri e delle azione, un'azione vermicolare che tutto ammette e tutto concede ma che è per definizione estranea a qualsiasi progetto di trasformazione della realtà. A qualsiasi scalata al cielo. Il cielo non si scala. Tutt' al più si scala il soffitto di casa e si arriva in terrazza. Di lì il cielo si può solo guardare.
La cosa che desta sgomento è che, a fronte di un atteggiamento del genere, destinato apparentemente ad addolcire i contrasti e a favorire le relazioni, pur tuttavia intatta ed incontrastata rimane la determinazione quella sì forte, anzi fortissima di chi continua ad imporre le regole ferree del capitalismo.
Basti vedere i fatti di Pomigliano di queste settimane, i ricatti di Marchionne, le sue minacce di delocalizzazione. E più in generale le vicende di un capitalismo sempre più selvaggio e incapace di governare le proprie contraddizioni. La pressoché totale scomparsa di un'opposizione forte e organizzata a questo sistema economico non ha minimamente modificato la sua aggressività. Ma forse il capitalismo sfugge alle regole dolci del postmoderno che pur essendo il pensiero dominante, per i padroni, fa un'eccezione.
Scrive F. Jameson che considera il postmoderno una proiezione del tardocapitalismo globalizzato e denuncia la riduzione (anche in arte) delle opere a merci, e di ogni valore d'uso in valore di scambio: «Il lettore non si lasci fuorviare dal fatto che Lyotard enumeri cinque diverse grandi Narrazioni; è una sola la grande narrazione che Lyotard desidera realmente falsificare, ed è quella comunista e marxista (…) Per cancellare meglio le tracce, Lyotrad le confonde. Per tagliare l'albero, brucia l'intera foresta. Per ammazzare il padre, uccide tutti gli adulti.»
In arte la crisi generale della cultura che attraversiamo esibisce evidentemente anche un suo cotè estetico. Tranne rarissime eccezioni mancano i grandi artisti. E i più grandi non sono i più apprezzati. Mancano le grandi opere. Mancano i movimenti e le Scuole. Quello che domina è un polverone casinista e sensazionalista, gestito secondo i criteri di un marketing spregiudicato e indifferente allo specifico dell'arte che, evidentemente, non può essere assimilata ad una attività imprenditoriale come le altre. «La bellezza salverà il mondo» scrisse una volta Dostoevskij. A giudicare dalla bellezza che c'è in giro siamo messi proprio male.
Liberazione 11/08/2010, pag 8
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