Maria Vittoria Vittori
Non mancano di sicuro i commissari nella nostra narrativa, da alcuni anni particolarmente sensibile al filone delle indagini poliziesche, però il commissario Stucky, protagonista dei libri di Fulvio Ervas, dal primo della serie intitolato Commesse di Treviso (Marcos y Marcos, 2006) fino al recentissimo Finché c'è prosecco c'è speranza (Marcos y Marcos, 2010 pp. 302 € 16,50) non è come gli altri. Figlio in egual misura dell'Iran e della Serenissima - con un retroterra di antiche tradizioni e nuovissimo disincanto - e domiciliato nel centro storico di Treviso, ha costituito una squadra che, tra Venezia Roma e Napoli, è un vero e proprio sberleffo alle smanie separatiste del Veneto. Non solo: in ogni romanzo (compresi Pinguini arrosto del 2008 e Buffalo Bill a Venezia del 2009) l'indagine poliziesca appare poco più che un pretesto per inoltrarsi più a fondo nella confusa commedia umana del nostro tempo. Commedia che va in scena in magnifici borghi assediati da cementifici, nelle calli di una Venezia prossima al collasso, oppure in un paesaggio reso irriconoscibile da capannoni industriali e centri commerciali che si susseguono senza soluzione di continuità; recitata giorno dopo giorno con toni sempre più bugiardi e arroganti che relegano al ruolo di comparsa chi non appartiene alla schiera dei furbetti e/o esibizionisti.
Servendosi di una ben collaudata capacità di osservazione "sul campo" e di un'ironia sapientemente declinata in tutte le sue forme, dal fioretto all'arma da taglio, Ervas - agronomo prestato alla letteratura - racconta dunque, al di là dei casi risolti dal suo commissario, un duplice avvelenamento: dell'ecosistema naturale e dell'ecosistema umano, non meno fragile e delicato del primo. Parliamo di questo, e di altro ancora, nella cornice intatta di Cison di Valmarino, il borgo trevigiano sulle colline del prosecco che fa da sfondo al suo ultimo libro.
Come nasce il personaggio di Stucky, commissario dalla doppia appartenenza?
E' un omaggio al mio migliore amico. Che è un medico del lavoro iraniano, vive a Padova ed è responsabile di un'associazione che si batte per il rispetto dei diritti umani. Le storie di famiglia del commissario - ma il cognome è un chiaro riferimento al veneziano Mulino Stucky - sono ispirati a quelle del mio amico, che viene da una famiglia di produttori di tappeti schierata contro il regime dello Scià.
C'è sempre un controcanto dissonante nelle vicende: il diario, o le lettere, o le considerazioni di qualcuno che è e vuole rimanere fuori dal coro. Quanto è importante questa prospettiva, all'interno della narrazione?
Conta molto, perché mi rappresenta. Trovo un personaggio che mi piace e gli faccio dire le cose che vorrei dire io. Questa prospettiva è la lucidità dello stravagante che mette il dito su ciò che la logica spesso nasconde sotto il tappeto. Così, in Commesse di Treviso è Max Pierini, gestore di discariche, che s'incarica di ricordare ai trevigiani che le loro camicie firmate e le loro belle vetrine trovano il loro riscontro nella spazzatura indiscriminata e tossica; la badante rumena di Pinguini arrosto è una che giocando intelligentemente sulle statistiche dice cose molto importanti sul nostro rapporto con i vecchi; Isacco Pitusso, personaggio del mio ultimo libro, ha nostalgia del passato e dunque effettua un lavoro di recupero, una sorta di Spoon River del paese. In questo mondo che spacca le comunità e che sta diventando sempre più cemento e supermarket è importante che ci sia qualcuno che ricorda di quando avevamo meno cose da scegliere ma più tempo per scegliere.
Altra componente fondamentale delle sue storie è l'ambientalismo.
In quanto agronomo non posso non amare moltissimo il territorio: la sua tessitura, la sua integrità. Il cambiamento è fisiologico, certo, ma produrre un cambiamento veloce è follia. Il territorio va conservato perché è un valore: una quercia non vale meno di una comodità.
Come sono cambiati i luoghi delle sue storie e della sua vita?
La Marca trevigiana è stata lungamente attraversata e raccontata da un poeta come Zanzotto. Ha quasi novant'anni e dunque ha potuto vedere un paesaggio ancora integro, un paesaggio che oggi è irriconoscibile. Nel suo ultimo libro Trevisan, per raccontarlo, adopera la metafora della betoniera. Questo Veneto è un'immensa betoniera: negli ultimi cinquant'anni c'è stata una trasformazione molto più intensa e veloce di quanto il territorio possa sopportare. Gli scrittori veneti manifestano da sempre una forte sensibilità verso questa tematica, a partire da Rigoni Stern e da Zanzotto per arrivare a Mauro Corona, Trevisan, Carlotto che ha approfondito il discorso sulla criminalità del Nord est. Io vedo fiumi rovinati, boschi tagliati, cemento e capannoni ovunque e sono colpito soprattutto dallo stretto rapporto che c'è tra la speculazione edilizia, lo smaltimento dei rifiuti e l'infiltrazione criminale.
Una parola chiave, in quello che scrive, sembra essere biodiversità: non solo delle specie vegetali e animali, ma anche della specie umana.
Bisognerebbe partire dalla mucca Burlina, sulla cui salvaguardia ho scritto la mia tesi di laurea. E' una mucca autoctona, di dimensioni piccole che consuma poco ma produce un ottimo latte. Una vacchetta sopravissuta, un po' come la gente che riesce a sopravvivere al di fuori dei meccanismi dell'omogeneizzazione e del mercato. Mi piacciono quelle persone che sono sempre un po' distaccate dal contingente, che guardano a sghimbescio, hanno magari delle piccole manie eppure riescono a cogliere e valorizzare i piccoli dettagli del mondo. C'è una teologia della resistenza, in tutto questo. Ma per teologia intendo qualcosa di diverso dall'accezione usuale: la spiritualità di quegli esseri che hanno ancora una quota di umanità in azionariato di maggioranza, un fuoco che non si piega alle mode e all'omogeneità.
Lei insegna da molti anni e alla scuola ha dedicato un libro significativamente intitolato "Follia docente". A che punto è la notte, nell'impero della Pubblica Istruzione?
E' molto profonda, perché quando si toglie dalla narrazione della scuola il concetto di formazione, la scuola si trasforma in un luogo alienato e assurdo. I docenti diventano una specie di tritacarne che macina insensatamente nozioni di ogni genere e poi finiscono anch'essi nel meccanismo. L'unica strada percorribile consiste nell'intercettare quel bisogno di relazioni che viene alimentato ancora da molti ragazzi. Dobbiamo tornare ad essere maestri di relazioni umane, stare davvero dentro una classe, sporcarci le mani.
A quasi centocinquant'anni dall'Unità e dalla prospettiva di un Veneto che sembra sempre più intenzionato a mollare gli ormeggi, come le appare la situazione di questo paese?
Il Veneto è una regione particolare. Si ricorda di quando i Serenissimi scalarono il campanile di San Marco? Ci fu un errore di analisi. Quella era la coda di un leghismo veneto che andava a canalizzarsi in un partito. Era la fine di un ciclo, non l'inizio. I leghisti sono abilissimi a giocare sul malcontento, a creare parole d'ordine e strategie che attirino l'attenzione mediatica; aizzano il discorso sulla secessione ma il loro vero obiettivo, al di là di certo folclore non privo di danni, è il federalismo fiscale. Detto in parole povere: le tasse ce le teniamo qua. In quanto al profilo dell'Italia, mi sembra quello di un paese in grande difficoltà, con una storia complicata, una classe dirigente che arranca, uno scadimento etico sempre più evidente. Al tempo stesso ci sono grandi risorse e una grande capacità di reagire. Non rendono come dovrebbero, però, perché facciamo fatica a fare squadra: quello che manca, soprattutto, è l'idea di Stato.
Liberazione 22/08/2010, pag 7
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