Reportage dagli Emirati Arabi, dove chi lavora vive da schiavo
Francesco Marretta
Dubai
Visti dall'esterno, gli edifici di cemento, uguali a sè stessi, ricordano costruzioni lego guardate con gli occhi di un daltonico. All'interno, i cortili, su cui si affacciano inferriate che danno su rampe di scale ricoperte di spazzatura, con i panni stesi ad ascuigare, fanno venire in mente le Vele di Scampia a Napoli. Con la differenza che nel posto in cui ci troviamo, non ci sono sparatorie, droga o violenza. Sonapur è un luogo di degrado, ma tranquillo. Qui vivono ammassate le centinaia di migliaia di lavoratori provenienti da Bangladesh, Pakistan, Nepal, che vivono all'ombra dello scintillìo di Dubai. Questa massa umana è il lato oscuro del il customer service esasperato a beneficio dei turisti e degli espatriati che negli Emirati possono permettersi uno stile di vita che a casa propria, in Europa, negli Usa o in Australia, resta un miraggio. Anche i lavoratori che dormono nelle stanzette senza finestre di Sonapur sono espatriati. Ma per loro a rappresentare una solo visione sono il lusso, l'aria condizionata e le luci della città sorta nell'arco di una generazione come un'oasi nel deserto. Un posto che si tocca quasi con una mano, ma che resta innavicinabile.
Visti dall'esterno, gli edifici di cemento, uguali a sè stessi, ricordano costruzioni lego guardate con gli occhi di un daltonico. All'interno, i cortili, su cui si affacciano inferriate che danno su rampe di scale ricoperte di spazzatura, con i panni stesi ad asciugare, fanno venire in mente le Vele di Scampia a Napoli. Con la differenza che nel posto in cui ci troviamo, non ci sono sparatorie, droga o violenza. Sonapur è un luogo di degrado, ma tranquillo. Qui vivono ammassate le centinaia di migliaia di lavoratori provenienti da Bangladesh, Pakistan, Nepal, che vivono all'ombra dello scintillio di Dubai. Questa massa umana è il lato oscuro del il customer service esasperato a beneficio dei turisti e degli espatriati che negli Emirati possono permettersi uno stile di vita che a casa propria, in Europa, negli Usa o in Australia, resta un miraggio. Anche i lavoratori che dormono nelle stanzette senza finestre di Sonapur sono espatriati. Ma per loro a rappresentare una solo visione sono il lusso, l'aria condizionata e le luci della città sorta nell'arco di una generazione come un'oasi nel deserto. Un posto che si tocca quasi con una mano, ma che resta innavicinabile. Se il rione 167 a Napoli è stato proiettato sugli schermi di tutto il mondo da Gomorra, film di Garrone tratto dall'omonimo di romanzo di Roberto Saviano, del cemento uguale a sè stesso e senza colore dei "campi per lavoratori" di Sonapur, le frotte di turisti e businessman in arrivo a Dubai, non hanno mai sentito parlare. Per arrivare da questa parte della città si va nella direzione opposta a quella dei grattacieli che si raggiungono dall'aeroporto. Sonapur si presenta al visitatore come una landa polverosa senza infrastrutture. Gli unici negozi che vediamo sono quelli intorno al Supermarket Al Madina. In giro si vedono gli autobus che caricano i lavoratori per il tragitto lavoro- case-dormitorio. E non è un modo di dire. Nelle stanze senza finestra, con la porta che si apre sul balcone che fa da corridoio, tipo penitenziario, c'è posto giusto per i letti a castello, minimo quattro. Non ci sono tavoli, nè guardaroba. Nel lotto che visitiamo i bagni sono in comune, per ogni piano, come le cucine. Paradossalmente, in hindi Sonapur significa "città d'oro". Questo nome non è frutto di visioni nel deserto a cinquanta gradi. Come spiega Shadin, un ragazzo minuto di 22 anni, «Meglio stare qui e guadagnare 700 dirham al mese (150 euro), che a casa mia in Bangladesh, dove al massimo ne racimolo 200».
Shadin è arrivato a Dubai due anni fa con la promessa di un lavoro regolare. Si ritrova invece a fare, da clandestino, il manovale a giornata. Come gli altri lavoratori regolari o irregolari, residenti a Sonapur, Shadin non ha in tasca il passaporto. Una volta arrivati a Dubai tocca consegnarlo al datore di lavoro.
Il giovane racconta di aver pagato diecimila dirham (2000 euro) ad un intermediario nel suo paese che gli ha procurato il lavoro e fatto avere il visto. Soldi che deve restituire. Arrivato negli Emirati, ha lavorato per la compagnia che lo aveva impiegato solo quattro mesi. Poi, la crisi ha cominciato a mordere ed è stato scaricato. Ma ha deciso di restare a Dubai, anche se deve nascondersi dalla polizia e trovare lavoro alla giornata. Del resto, pur volendo tornare a casa, non avrebbe i soldi per il pagare biglietto. Ma quello che lo spaventa di più è lasciare le sue impronte digitali alla polizia dell'Emirato per riprendersi i documenti. Non potrebbe mai più tornare.
Mohammed che ha 30 anni e fa il tassista, viene dal Bangladesh come Shadin. Ma si ritiene molto più fortunato. A differenza del giovane compatriota, che lavora per i privati, la sua compagnia è statale. Tutta un'altra storia. Guadagna molto meglio. Se non ha multe da pagare per un parcheggio sbagliato o per un eccesso di velocità arriva anche a un massimo di tremila dirham al mese (650 euro), ma solo in inverno, quando ci sono più turisti che arrivano da queste parti per sbrinare. Lavora dodici ore al giorno. Il suo stipendio è variabile. Va a percentuale, spiega Mohammed, che a casa in Bangladesh ha una moglie che lo aspetta, che vede ogni giorno dalla webcam. «Se il tassametro arriva a 370 dihram, prendo il 35% dei soldi della giornata. A 320, prendo il 30%, a 272, il 25% e sotto i 220 il 20%».
Anche Mohammed non ha il passaporto in tasca.
Vive meglio di tanti altri a Dubai. Rispetto ai manovali che schiattano nella calura del deserto che non c'è più, chi fa il tassista vive con l'aria condizionata. Proprio come quelli che spendono nei mega centri per lo Shopping e dormono nei grandi alberghi. A Dubai, specialmente in questa stagione, non si vede gente per strada. Si vive respirando aria condizionata. In alcune aree circoscritte, come nella zona della città vecchia, Bur Dubai, si intravedono più pedoni. E ci si imbatte persino più spesso tra quel 5% di popolazione autoctona. Il resto sono expat.
Nella parte vecchia di Dubai sorge l'omonimo museo. Qui si apprende del borgo di pescatori di perle e commercianti d'oro, trasformatosi in un batter d'occhio, nella città dello skyline coi grattacieli illuminati. La grandezza di Dubai, raccontano le cronache ufficiali che esaltano il mito del faro economico del Medio Oriente, è tutta merito dello Sceicco Mohammed bin Rashd al Maktoum, attuale Primo Ministro, incoronato principe nel 1990 e del leggendario Sceicco Zaied Bin Sultan al Nahyan, il padre della nazione, morto nel 2004.
Il museo non è molto grande. Lo giriamo alla ricerca di una targhetta, o almeno una menzione sulla massa di braccia che hanno eretto questo fiore del deserto. Ma non c'è n'è traccia. L'altra faccia di Dubai non esiste. Se non con indosso le livree o le camice linde indossate al posto di guida nei taxi con l'aria condizionata. Secondo Human Rights Watch (Hrw), le condizioni di vita dei lavoratori provenienti del sud-est asiatico a Dubai sono disumane.
Nel 2009 la crisi globale ha costretto decine di migliaia di immigrati a fare ritorno nei paesi d'origine. Le lavoratrici provenienti dall'Asia, filippine in particolare, non dormono nel "campi per lavoratori", ma vivono, secondo Hrw, in condizioni di semi-schiavitù nelle case. In questo senso, c'è parità tra i sessi. Anche le compagnie private che impiegano forza lavoro poco qualificata nell'Emirato, dispongono, letteralmente, del lavoratore. A Dubai, il trucco c'è, ma non si vede. Basta non metterlo in vetrina tra le scale mobili che fanno su e giù tra i marmi delle Shopping Mall.
Liberazione 20/08/2010, pag 1 e 6
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