sabato 28 agosto 2010

Tijuana, dove il sogno americano è morto

Reportage dal confine tra Usa e Messico terra di maquilladoras

Daniele Nalbone
Tijuana - Messico
Aqui empeza la patria. La patria comincia da qui. Per chi attraversa la frontiera che separa gli Stati Uniti dal Messico attraverso "La Porta", Tijuana, è questa la prima frase che corre in mente. Perchè questo è il motto di Tijuana. Ci sono vari modi di varcare la frontiera per chi proviene dagli States. Quello più tranquillo è sicuramente in pullman o in automobile, come ogni sera fanno migliaia di "gringos" in cerca di droga e sesso. Quello invece più forte è come abbiamo deciso di farlo noi: tramite il Trolley, il treno leggero che collega il centro di San Diego con San Ysidro. Una corsa che dura poco più di mezz'ora attraverso colonie messicane in terra statunitense che iniziano subito dopo aver superato la base navale americana. Il paesaggio che cambia e i volti di chi sale sul Trolley diretto alla frontiera ti costringe, inevitabilmente, a voltare lo sguardo verso i grattacieli di San Diego, sempre più lontani. Scendere a San Ysidro ti mette addosso una sensazione bellissima e spaventosa al tempo stesso. Siamo alla frontiera, il muro che dal 1990 separa gli States dal Messico ancora non si vede e questo rende l'atmosfera più simile a quella di un grande mercato all'aperto. Indugiamo affascinati da cosa ci succede intorno e un poliziotto statunitense dai chiari tratti messicani ci indica la strada verso La Porta: una rampa stretta e buia che da accesso a un ponte che sovrasta l'autostrada.
Sotto di noi, guardando a destra, verso nord, in direzione San Diego, il traffico verso la frontiera messicana scorre regolarmente. Guardando invece a sinistra, verso sud, in direzione Tijuana ci rendiamo conto dell'enorme fiume di automobili, camion e autobus che dal Messico sono diretti agli Stati Uniti. Terminato il ponte, prima di iniziare a scendere la rampa, sotto di noi appare, all'infinito, il muro che separa i due stati, simbolo del fallimento delle politiche migratorie messicane e statunitensi. Terminata la rampa con le gambe che si fanno sempre più pesanti, ecco il famoso cancello sovrastato dalla scritta "Messico". Giriamo tra le porte metalliche ancora in territorio statunitense. Un rumore sordo ci fa capire che gli Stati Uniti, i grattacieli e la ricca San Diego sono ormai alle spalle. Ormai solo pochi passi ci separano dalla dogana. Compiliamo i moduli per ottenere il timbro turistico sul passaporto. Siamo in Messico. Sono da poco passate le 9 di mattina e alle 11 abbiamo appuntamento con Jaime e Manuèl presso la Casa de la Cultura Obrera, sede del Centro de Información para Trabajadoras y Trabajadores, nella frazione de La Mesa. Altro che Avenida Revolucion, l'arteria piena di ristoranti, bar e negozi di souvenir che ogni fine settimana si mette in mostra per l'arrivo dei gringos. Ad Jaime e Manuèl, due operai impegnati a livello sindacale per informare, prima ancora che difendere, i lavoratori delle grandi fabbriche sui loro diritti, abbiamo chiesto di mostrarci il vero volto di Tijuana: quello operaio, quello delle colonie che sorgono a ridosso dei parchi industriali, quello del muro che ogni notte viene, in qualche modo, scavalcato da decine di messicani in cerca del sogno americano. E' Jaime ad aprirci la porta del Cittac. Sul muro, decine di fotografie dell'Ezln, del Chiapas, della Lucha. Manuel ci porta immediatamente dell'acqua fresca. Jaime intanto ci mostra una enorme cartina di Tijuana che ci fa capire come, in realtà, la citta "turistica" vera e propria è solo un piccolo quadrante. Tutto il resto si divide tra sessanta immensi parchi industriali dove le grandi multinazionali occidentali e asiatiche hanno portato la loro produzione e centinaia di colonie, quartieri operai, in realtà un cumulo di baracche controllate da piccoli boss locali e niente più. La prima tappa del "vero tour" di Tijuana è La Playa. Per raggiungere il litorale prendiamo un taxi collettivo. Poco meno di un'ora di traffico congestionato dopo e venti pesos a persona, siamo nuovamente sotto il muro. Facciamo a piedi i pochi metri che ci separano da uno degli spettacoli più emozionanti che ci siano: a ridosso della spiaggia il muro si trasforma in una rete metallica alla quale sono attaccati migliaia di crocifissi sui quali è scritto un nome. Jaime ci spiega che sono in ricordo delle persone morte nel tentativo di raggiungere clandestinamente gli Stati Uniti. In silenzio, proseguiamo verso l'oceano finche la rete ricoperta di crocifissi diventa un enorme sbarramento. Solo che anziché pali di ferro, a delimitare la linea della frontiera sono stati usati i binari della ferrovia che corrono fin dentro l'acqua. Tra un binario e l'altro, dietro la frontiera, una bellissima spiaggia deserta abitata solo da migliaia di uccelli e, verso l'orizzonte, ecco ergersi gli immensi grattacieli di San Diego. Il sogno americano, costato la vita a migliaia di persone. Riprendiamo un taxi da La Playa alla volta della citta turistica. Scendiamo nei pressi della Revo, come i gringos chiamano Avenida Revolucion. A pochi metri da una stazione di polizia, decine di giovani ragazze, sulla strada, sono in attesa di un cliente a ridosso dei bar, deserti, dove è più facile ordinare della droga che un drink. Purtroppo Jaime ha il secondo turno in fabbrica cosi rientriamo a La Mesa per incontrarci con Manuèl per scoprire la Tijuana obrera, operaia. Manuèl opta per il Parque Industrial Pacifico, «quello in cui - ci spiega - sono oggi più dure le condizioni di lavoro». Prima però, facciamo tappa nella colonia di Camino Verde, un immenso quartiere che sorge su una collina in cima alla quale svettano le fabbriche della Sony e della Pan Bimbo, le due più importanti del Parque Pacifico. Camino Verde, non appena calato il sole, è una delle zone più pericolose di Tijuana «ma di giorno» ci spiega Manuèl «è operaia al 100%, digna y solidal». Per farci capire la vera vita di un operaio delle maquilladoras, Manuèl ci porta a casa di Machuca, un'operaio licenziato un anno fa e che da allora sbarca il lunario tra un impiego da muratore e uno da meccanico. Viene dalle terre indios dello stato di Veracruz, mentre sua moglie, dello stato di Chihuaua, lavora come domestica negli States, in Kentucky. «Quando mi hanno assunto» racconta Machuca «mi hanno fatto firmare un contratto a tempo indeterminato ma, al tempo stesso, mi hanno costretto a porre la mia firma sotto un foglio con cui presentavo, senza data, le mie dimissioni rinunciando perfino alla liquidazione». Questa, nelle grandi fabbriche di Tijuana, occidentali o asiatiche, è la prassi. Cosi come è normale che si possa lavorare per sette giorni a settimana, anche per dieci ore al giorno «e solo» ci spiega Manuèl «per circa un dollaro l'ora». E se ci si oppone a un trasferimento di reparto deciso da un superiore al quale non si va a genio, come accaduto a Machuca, ecco allora che sul foglio delle dimissioni firmato in bianco appare la data. Addio lavoro. «Tanto - racconta - in questa situazione di disperazione c'è sempre qualche ragazzo che accetta condizioni di lavoro teoricamente inaccettabili». Perchè il vero problema di Tijuana, «cosi come del resto del paese - ci spiega Manuèl - è che i lavoratori messicani non sono a conoscenza dei propri diritti e per questo vengono sfruttati fino allo sfinimento, soprattutto nelle grandi multinazionali che decidono di portare la propria produzione in questa nazione». Si avvicinano le 17, l'orario di uscita degli operai dalle fabbriche. Cosi salutiamo la famiglia di Machuca e ci arrampichiamo sulla collina della colonia di Camino Verde. Ci facciamo spazio tra strade sterrate, cani in cerca di cibo, bambini che giocano a pallone e cumuli di rifiuti. Dopo mezz'ora di strada in salita sotto un sole cocente, ecco apparire davanti a noi la prima grande fabbrica: è di una società affiliata alla Sony. Gli operai sono gia usciti: alcuni si fermano a mangiare qualche tacos ai carretti parcheggiati lungo le strade, «visto che per tutta la giornata» ci racconta Manuèl «hanno a disposizione una sola pausa e o si va in bagno, o si mangia: per entrambe le cose non c'è tempo». Un gruppo di ragazzi gioca a basket in un campo rimediato nel parcheggio dei tir della fabbrica mentre fuori due giovanissimi operai ai quali Manuèl lascia il bollettino mensile del Cittac ci raccontano come si lavora in una maquilladora messicana: «qui tutto è possibile» ci racconta Josè: «può accadere di essere mandati a casa al primo richiamo per un ritardo, può accadere di essere spostati di reparto perchè si è chiesto un giorno di malattia per una visita medica, ma soprattutto può accadere di essere licenziati perchè la produzione non corrisponde, secondo loro, agli standard». E, chiediamo, come viene calcolata la produttività di un obrero? E' Manuèl a rispondere: «con un semaforo: se si riesce a montare un televisore ogni venti minuti allora la luce della tua posizione è verde. Altrimenti gialla o rossa. E al primo rosso - spiega - sulla tua lettera di dimissioni che al giorno dell'assunzione hai firmato in bianco, ecco apparire la data».

Liberazione 22/08/2010, pag 6

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