venerdì 19 marzo 2010

Cinema d'Africa alla riscossa tra dittatori e nuove coscienze

A Milano la ventesima edizione della rassegna di Cinema Africano, Asia e America Latina

Davide Turrini
Non è che in Africa tutti si chiamino Nelson Mandela. Quel bonario anzianotto, appena interpretato da Morgan Freeman in Invictus , sempre pronto a perdonare i coloni bianchi ex violenti usurpatori. Bisognerebbe ricordarlo ai registi inglesi Andrew Thompson e Lucy Bailey che con Mugabe and the white african , in questi giorni Fuori Concorso alla ventesima edizione del Festival del Cinema Africano, Asia e America Latina di Milano, credono di aver scoperto il curioso e l'inaudito. Cioè che in Africa esiste l'africano nero, nerissimo, rancoroso e furente, intento a reclamare a sua volta la sua terra, il suo prato, la sua porzione di giungla o foresta. Certo, andare a sfruculiare tra le frasche putride e insanguinate del governo ad interim, e ad personam, del dittatore Mugabe dello Zimbawe è colpo basso degno del miglior revisionismo d'essai.
Perché Thompson e Bailey cosa fanno? Si armano di cinepresa e ritraggono in una specie di crepuscolare quadretto bucolico una famigliola bianca, originaria del Kent inglese, "uomini del monte" con panama sulla capoccia e vestitino in fresco lino. I Campbell e la loro tenuta agricola sono stati sfrattati dalla riforma agraria datata 2000 promulgata dal presidente Mugabe e per legge non potranno più soppesare manghi rossi e verdi assieme al capo operaio (gesto ritratto in una delle sequenze "padronali" del film che ci hanno ricordato la chilometrica fila degli operai Fiat alle esequie dell'avvocato Agnelli in Requiem ), uno dei 500 neri a cui hanno concesso a loro avviso, da almeno un cinquantennio, lavoro e vita decente. Peccato però che la legge giusta sia stata impugnata dall'uomo sbagliato: uno dei più efferati dittatori della storia africana, mister Mugabe.
Ecco qua il nocciolo della questione: i Campbell sono vessati e minacciati di morte dagli sgherri del dittatore, quindi siamo di fronte ad una forma di razzismo al contrario da quello che (guarda caso!) la storia ci ha insegnato. Neri corrotti e cattivi, bianchi onesti e buoni. Eppure nemmeno Jacopetti e Prosperi, autori dei memorabili Africa addio e Addio Zio Tom , si sarebbero potuti incaponire su una tale sottigliezza di senso. Se i Campbell reputano una tale disumana ingiustizia togliere le zampacce da coloni sulla terra degli zimbawesi, tornino nel loro cottage del Kent e nessuno gli farà di certo del male. Poi, a porre fine ai crimini commessi dal regime di Mugabe sarebbe ora cominciasse a farsi sentire concretamente, anche in questo angolo di Africa, un qualche accidenti di tribunale internazionale finora latitante, per arrivare ad una soluzione equa, "mandeliana" per "Campbell versus zimbawesi infuriati". Anche se rimane sconcertante la lucidità con cui in Mugabe and the white african si usa la cinecamera per occultare il giusto cruccio etico che potrebbe soggiacere ad un siffatto, tragico, dirimere tra declinante colonialismo e impazzito nazionalismo: la violenza tra esseri umani non ha colore di pelle.
Sempre sul sottile discernere di "strane" forme di razzismo, in Concorso tra le sale milanesi del cinema Gnomo, spazio Oberdan e Auditorium San Felice, citiamo con piacere Fantan Fanga ("La forza dei poveri"), per la regia dei maliani Adama Drabo e Ladji Diakité. Racconto dall'intreccio basilare tra tradizione ancestrale e moderna contemporaneità di un Mali in ricostruzione, Fantan Fanga mostra l'uccisione e decapitazione di un vignettista satirico di un quotidiano nazionale, fatto avvenuto realmente a Bamako nel 2004. La peculiarità cromatica è che il povero Lassine è albino. Quindi in un paese in cui le elezioni si vincono anche con la superstizione si possono cogliere, sanguinosamente, due piccioni con una fava: uccido un rompiscatole, in più, visto che la testa di un albino morto dà energia e forza a chi pone il sacrificio, ci guadagno pure il favore degli spiriti. Altro titolo davvero imperdibile, sempre tra gli oltre cinquanta del festival, Buried secrets della tunisina Raja Amari. Film nascondiglio, anfratto, cripta, dove si celano le identità femminili di tre donne (madre più due figlie), autoisolatesi nelle stanze della servitù tra le cantine di una villa disabitata. Quando Aicha, la figlia più piccola, proverà pulsioni impossibili da frenare, rispetto a quel mondo esterno osservato da piccole grate, il difficile equilibrio di famiglia si sgretolerà e si concluderà in tragedia.

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Imperdibile il titolo haitiano "Moloch tropical"

Da quando il Festival del Cinema Africano di Milano ha aperto i suoi orizzonti di selezione ad altri continenti cinematografici, la manifestazione organizzata dall'associazione C.O.E. si è fatta promotrice di preziose anteprime, che spesso in Italia rimangono tali. Oltre al film d'apertura, quel "Precious" che non più di una settimana fa si è portato a casa un Oscar per l'attrice non protagonista, segnaliamo l'imperdibile "Moloch tropical", per la regia dell'haitiano Raoul Peck: pellicola di assoluta levatura stilistica e di denso acume politico, appena passata sugli schermi della Berlinale 2010. Il presidente "democraticamente" eletto Theogene, se ne sta arroccato nel suo sfarzoso e moderno castello, in cima ad una collina, con moglie, figli, amanti, servitù, guardie del corpo e ministri. Ma la "democratizzazione della democrazia" di un presidente che tortura gli oppositori, confeziona discorsi fregnaccia per la nazione e fa la cacca proprio seduto a figura intera (tirando pure lo sciacquone) come tutti gli esseri umani, ha i giorni contati.
Raoul Peck confeziona un ricco e vivace apologo metaforico sull'ipocrisia del potere che inquieta e allo stesso tempo diverte, lasciando un bunueliano retrogusto di assurdo. (per info su programmazione e orari www.festivalcinemaafricano.org)
D. T.

Liberazione 18/03/2010, pag 12

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