martedì 16 marzo 2010

La crisi non picchia troppo duro e in Cina il nazionalismo esplode

In crescita un sentimento che unisce senso di superiorità e desiderio di rivalsa

Roberto Onorati
Pechino
Un amico cinese tempo fa mi confessò quello che per lui è una sorta di segreto: i cinesi nati negli Stati Uniti, i cosiddetti ABC (american born chinese), lui li chiama banana. «Gialli fuori, ma bianchi dentro».
Non gli piacciono gli americani, o meglio prova per tutto ciò che è yankee, una sorta di amore e di odio. Un sentimento che nasce dal far parte di un popolo che vive un momento di straordinario nazionalismo. Una spirale iniziata con il terremoto del Sichuan nel maggio 2008, proseguita in grancassa con le Olimpiadi e cresciuta con le contingenze economiche e politiche: avere vissuto la crisi in modo quasi indenne, proprio nel momento le economie occidentali erano in profonda emergenza, ha contribuito ad accrescere la sensazione di essere tornati il centro del mondo. «Con noi cinesi ognuno può parlare piacevolmente, ridiamo scherziamo, beviamo, siamo ospitali: basta non parlare di Tibet e Xinjiang. Sono affari nostri, quelli». Non è la traduzione in parole povere di un comunicato del governo di Pechino, sono le parole di un cinese, 45 anni, professione autista. Si dirà che i cinesi sono tutti uguali, perché sottoposti alla stessa propaganda, ma quello che pochi fanno notare è come invece la propaganda si alimenti di luoghi comuni insiti nell'anima cinese. La sensazione di un'unicità che si traduce poi in nazionalismo, parlando di politica o visione generale del mondo. Non poche volte capita in Cina di parlare di argomenti vari e venire tacciati come occidentali e quindi automaticamente non in grado di comprendere la complessità cinese. «Wong Kar Wai? Come fa a capirlo un occidentale», mi chiese un documentarista cinese.
Ogni attacco occidentale poi, anziché ledere la fiducia nella propria nazione, alimenta ancora di più la sensazione di essere accerchiati, perché migliori degli altri. Ci sono tanti segnali macro a testimoniare questa tendenza. Il caso di Taiwan, il considerarla roba propria, così come il Tibet, fanno si che ad ogni notizia legata all'isola ribelle o al territorio occupato, secondo i tibetani, liberato dalla schiavitù secondo Pechino, porti ai cinesi una sorta di nervosismo di fondo, come se venissero attaccati su un argomento che proprio non è in discussione. Ci sono molti altri segnali nella vita quotidiana, in cui il confine tra difesa della propria cultura e nazionalismo è assai labile. A Pechino una cosa apprezzabile è l'ottima scena musicale: si va dal folk al punk, dal jazz alla musica sperimentale. Il movimento cinese è incredibilmente vivo e sforna sia campioni di incassi, sia una prolifica cultura underground. Quasi impossibile ascoltare una cover straniera: tutto rigorosamente in cinese. Alcune settimane fa un gruppo punk, che addirittura sfodera anche qualche pezzo in inglese, ha fatto una cover: un pezzo di Cui Jian, padre del rock cinese. Tutto in famiglia, ha commentato qualcuno.
O nel cinema, con un caso che è diventato ben più famoso: dalle sale cinesi in 2D, la maggioranza, è stato tolto dalla programmazione Avatar, campione di incassi anche in Cina, per fare spazio al cinese Confucio. Un film che ricorda le gesta del padre del pensiero cinese, particolarmente attuale oggi con il suo concetto di armonia sistematizzato da Hu Jintao e il suo entourage. Una manovra che avviene anche dalle nostre parti (per favorire magari il cinepanettone) ma che in Cina si gonfia anche dell'aura sacra di difesa (e promozione) dei valori nazionali, rispetto a un film americano che peraltro potrebbe anche scuotere alcune coscienze. Per non parlare del caso di Google: vero che una minoranza di cinesi attivi soprattutto nel web hanno difeso l'azienda americana e preso per buono l'impegno etico sulla censura, pur sottolineando i connotati economici dell'intera faccenda, ma si tratta di una minoranza. I cinesi sono convinti che Google non serva alla Cina, anzi: molto di loro non sapevano neppure esistesse. La parola Google, da gennaio è una delle più cercate sui motori di ricerca cinesi: in molte zone del paese, specie quelle più rurali, hanno appreso dell'esistenza del gigante di Mountain View grazie alla polemica e all'eco che ha avuto sui giornali locali.
Secondo alcuni studiosi (come ad esempio Peter Gries, autore di China's New Nationalism) questo nazionalismo prende piede fin dai trattati ineguali e la guerra dell'oppio, finendo per creare momenti di tensione anche i nostri giorni. Nel 1999 l'ambasciatore Usa in Cina rimase per giorni asserragliato tra le mura dell'ambasciata per le proteste cinesi nei confronti del bombardamento americano contro la propria ambasciata a Belgrado. Nel 2005 le proteste anti giapponesi furono tremende con vetrine spaccate e ambasciata presa d'assalto. Nel 2008 fu la volta di Carrefour, boicottata perché sospettata di finanziare il Dalai Lama e la sua cricca. Prima era toccato alla Nike comprare diverse pagine dei giornali locali per chiedere scusa: in una pubblicità un giocatore di basket, yankee, derideva alcuni draghi e maestri di kung fu. Stesso destino era toccato alla giapponese Toyota, per un'altra pubblicità che ledeva la cultura cinese, per non parlare dello spot Fiat in cui Richard Gere veleggiava sull'altopiano tibetano. La Fiat si scusò, ma lo spot non venne mai bloccato. Confermando la naturale diffidenza cinese e quella strana forma di nazionalismo a metà tra amor proprio e desiderio latente di vendetta. Da secoli.

Liberazione 10/02/2010, pag 7

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