domenica 14 marzo 2010

La Cina fa la voce grossa: lo yuan non si svaluta

Quarta mini crisi nel G2 in due settimane, stavolta tocca al surplus commerciale cinese

Roberto Onorati
Pechino
E' la volta dello yuan, la moneta cinese: martedì Obama ha accusato la Cina di giocare con la propria valuta, in modo da scongiurare importazioni e favorire in modo straordinario le proprie esportazioni. L'allarme lanciato da Obama non è nuovo, né il presidente Usa è il primo a farlo, anzi. Pechino dal canto suo prosegue sulla sua linea, alla ricerca della massimizzazione delle proprie esportazioni da un lato, e all'inseguimento dell'aumento del mercato interno dall'altro. La Cina persegue da tempo la necessità di formare una propria classe media, favorita da esportazioni e da un mercato interno in grado di preservare la pace sociale dalla crisi economica. Anche per questo gli strali di Washington sono stati rispediti al mittente, seppure con toni meno duri rispetto ai precedenti. E' toccato ancora una volta a Ma Zhaoxu, portavoce del ministero degli esteri cinesi, rispondere a Obama: «Il tasso dello yuan è a un livello ragionevole e la Cina non ha intenzione di perseguire deliberatamente un surplus commerciale con gli Stati Uniti». Le accuse e «le pressioni», sarebbero dunque infondate, completamente.
Obama due giorni fa era stato altrettanto chiaro: «dobbiamo continuare - aveva detto il presidente Usa - il pressing costante su Pechino e altri paesi in modo ma aprire i mercati in maniera reciproca». La Cina deve risolvere gli squilibri valutari che «gonfiano in modo artificiale il prezzo dei nostri prodotti e abbassano il valore dei loro. Tutto questo crea un enorme svantaggio competitivo». Dopo internet e i problemi cinesi di Google, azienda americana, la paventata vendita di armi a Taiwan, il prossimo incontro di Obama con il Dalai Lama, proseguono le scaramucce diplomatiche tra Usa e Cina: nessuna rottura economica, ma segnali di incomprensioni, quanto meno, nel tentativo di riequilibrare un G2 che spesso sembra a solo appannaggio cinese. L'opinione pubblica cinese, del resto, sostiene il governo: il Global Times, giornale cinese in lingua inglese, unico a parlare di Tien'anmen nel ventennale del 1989, ma su posizioni nazionaliste, ha provato a capire il perché di questo atteggiamento di Obama. Secondo gli editorialisti cinesi, gli Usa si sarebbero lasciati sfuggire due grossi cambiamenti nell'ambito dei rapporti con la Cina: il primo è l'esistenza di una opinione pubblica cinese che si sarebbe «stufata» dei giochini diplomatici statunitensi tesi a considerare la Cina da un lato come partner commerciale, dall'altro come un nemico politico. E' la stessa opinione pubblica, sottolineano gli editoriali del Global Times, ad avere spinto affinché il governo di Pechino assumesse un atteggiamento più rigoroso nei confronti delle provocazione degli Usa. Il secondo elemento sarebbe la crescita cinese: con una Cina in difficoltà gli americani possono anche punzecchiare, ma con la locomotiva del mondo a pieno regime, «gli Usa devono capire che la Cina non permetterà mai che i propri interessi e quelli di 1 miliardo e 300 milioni di persone vengano violati».
E' la summa del «soft conflict», come lo chiamano i cinesi, con un chiaro riferimento al proprio «soft power». Ci sono anche altre letture: Wang Wanzheng del China Daily, ricorda gli screzi di Copenaghen, riportando però le parole di un amico statunitense, secondo il quale, «la querelle serve soltanto a rasserenare la comunità internazionale» circa dissidi all'interno di un G2 che, se apparisse monolitico, taglierebbe fuori dall'ambito decisionale parecchi altri paesi. E le possibili sanzioni appoggiate anche dai cinesi all'Iran, sembrerebbero dimostrare l'altro lato della medaglia: un sodalizio chiaro e preciso. L'autore dell'editoriale, in ogni caso, non nasconde la visione della Cina circa il mondo odierno: «nell'era post crisi, l'immagine di un Occidente ideologicamente forte e di un Oriente debole, è significativamente modificata. Il potere e il prestigio delle dottrine neo liberali non esistono più, il consenso di Washington ha perso la sua reputazione, il capitalismo laissez faire americano si è ripiegato su stesso. La bolla ideologica occidentale ha finito per seguire il destino della bolla economica finanziaria».
Ufficialmente si registrano toni più cauti: il livello dello scontro sembra essersi leggermente spento, nonostante la conferma delle sanzioni alle aziende Usa che trafficheranno armi con Taiwan. Se - dopo gli ultimi scontri diplomatici - la notizia della difficoltà tra i due giganti, ieri si affidava alla novità secondo la quale i due panda che la Cina ha regalato agli Usa, starebbero tornando a casa, vorrà pur dire qualcosa.

Liberazione 05/02/2010, pag 6

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