martedì 16 marzo 2010

Le verità di Ciancimino sulle stragi e su Dell'Utri e il polverone necessario

Le dichiarazioni del figlio di don Vito entrano nel processo al senatore

Gemma Contin
Pazzo, mitomane, un esibizionista, lo scemo del villaggio: nel migliore dei casi; o, nel peggiore: uno che sta trattando attenuanti di pena, che cerca di salvare il patrimonio mafioso del padre, che milita nel partito dell'odio contro Berlusconi, che è nelle mani (preda, ostaggio, vittima, pupo) dei pm comunisti, i soliti irriducibili caselliani.
E via così, a deridere e denigrare Massimo Ciancimino e quello che dice, nel gran circo mediatico della disinformazione, o dell'informazione ingaggiata dal padrone dell'etere, lungo i meccanismi arcinoti e arcipraticati di aggressione, intimidazione, irrisione, disconferma di qualsivoglia testimone.
L'importante è non entrare nel merito delle cose e, soprattutto, rimuovere cancellare e confondere il ricordo di quello che ha rappresentato e di quanto ha fatto la mafia e i mafiosi in terra di Sicilia e in Italia negli ultimi trent'anni. In particolare a cavallo tra gli Anni Ottanta e Novanta del secolo scorso.
Parliamo appositamente del "secolo scorso" per mettere in evidenza il fatto che la rappresentazione delle vicende e degli affari mafiosi, anzi la non rappresentazione di quelle vicende e di quegli affari, viene collocato - da parte di uomini come l'avvocato del premier Niccolò Ghedini, che nega sempre tutto per principio e per abitudine; o come Marcello Dell'Utri, già condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa; o come il ministro guardasigilli Angelino Alfano, che come lui nessuno mai ha ingaggiato una strenua lotta contro Cosa Nostra - nella fiction collettiva a cui stiamo assistendo, in una sorta di era giurassica della mafia e dell'antimafia, dove c'è posto soltanto per le celebrazioni e le santificazioni dei martiri e degli eroi che furono, e perciò vengono santificati e celebrati come quelli di due millenni fa, ai tempi dei primi sacrifici cristiani.
Svaniscono così, nella nebbia di una mafia ridotta appunto a reperto giurassico, nel ricordo della gente comune, sia i delitti organizzati e militarmente portati a termine dalle bande di Cosa Nostra, con tanto di generali, comandanti ed eserciti armati, sia, più di tutto, il giro del riciclaggio (degli investimenti) del denaro criminale (dei capitali) travasati (da intermediari e prestanome) in nuove attività imprenditoriali lontane dalla Sicilia: in Continente, al Nord o nei paradisi fiscali. Quelli dove sono nate e hanno trovato rifugio e compiacenza società e patrimoni oggi rivenduti come al di sopra di ogni sospetto.
E svanisce la possibilità di tenere il fuoco puntato su quello che è successo davvero quindici-venti anni fa (non il secolo o il millennio scorso) a cavallo e in contemporanea con la morte della prima repubblica, devastata dal sistema di corruzione scoperchiato da Tangentopoli, e dei partiti di riferimento e al potere nella prima repubblica; alla quale è subentrata, ahinoi, la seconda e i partiti di riferimento e al potere che sono loro succeduti, diventandone i naturali eredi.
Ma scompare anche, nella melassa dell'informazione "embedded", quello che sta succedendo adesso, qui e ora - fagocitato dal chiacchiericcio scandalistico e dalla recitazione della rissa che in tutti i salotti televisivi, nessuno escluso, sono andati azzerando e sostituendosi al mero buon senso ed anche al mero buon gusto - nei processi a carico dei potenti, si chiamino Dell'Utri, Cuffaro o Cosentino, e nelle "riforme" che gli uomini di Berlusconi stanno concretamente apportando, con un'azione di demolizione quotidiana, per cambiare i connotati del Paese nell'economia, nella tenuta sociale, nella gestione della giustizia e negli assetti del potere.
Cerchiamo allora di rifocalizzare quello che va dicendo quel pazzo (ha detto Dell'Utri in un'intervista) di Massimo Ciancimino. Pazzo come quel Leonardo Vitale, uno dei primi pentiti di mafia, che non fu creduto, rinchiuso nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto e, appena uscito, fatto fuori perché non parlasse più. Le confessioni di Vitale vennero puntualmente confermate dieci anni dopo da Tommaso Buscetta nel corso del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone. Speriamo che a Ciancimino figlio finisca meglio.
Massimo Ciancimino dice per la verità poche cose che ci interessano: riguardo il processo Mori e i servizi segreti, sul fronte della trattativa tra Stato e mafia, e riguardo il processo Dell'Utri, sul fronte degli affari milanesi e dei nuovi referenti politici di Cosa Nostra.
Perché parla Ciancimino, e ogni volta che apre bocca solleva un vespaio? Parla perché questo è esattamente il lascito "morale", al di là dell'eredità materiale, che gli ha intestato il padre Vito, il quale aveva dichiarato, e lasciò scritto in uno dei documenti esibiti dal figlio, che se non fosse stato ascoltato in tempi ragionevoli per definire la sua posizione (di dichiarante? di collaboratore? di testimone? di pentito?) si sarebbe visto costretto a convocare una conferenza stampa.
E cosa dice il giovane Ciancimino? Dice esattamente quello che avrebbe detto il padre se fosse stato ascoltato. Primo: che c'era una trattativa tra Stato e mafia (tra Bernardo Provenzano e i servizi segreti per il tramite dello stesso Vito Ciancimino) per chiudere la stagione delle stragi in cambio di condizioni di miglior favore per i mafiosi, sia dal lato dei processi e delle condizioni carcerarie, sia dal lato delle garanzie patrimoniali dopo la legge Rognoni-La Torre.
Vediamo questa prima affermazione. Che ci fosse la trattativa lo sanno i cani e i gatti. Lo sapeva Paolo Borsellino, che incontrò Vincenzo Parisi e Bruno Contrada quando si recò al Viminale dal neoministro Nicola Mancino. Lo sapevano i vertici dei Carabinieri e dei Servizi, di cui Mori e Contrada facevano parte, assieme a Mauro Obinu (coimputato con Mori) Giuseppe De Donno e Antonino Subranni, che a turno hanno fatto parte del Ros e del Sismi e la cui attività per agganciare Provenzano in veste anti Riina e per l'inabissamento di Cosa Nostra era nota persino all'allora ministro dell'Interno Claudio Martelli e a Liliana Ferraro, subentrata a Falcone alla Direzione Affari Penali di Via Arenula.
Sull'esistenza della trattativa con Provenzano, che Ciancimino conferma nei dettagli - perciò il boss latitante non doveva essere preso - siamo in presenza da alcuni anni di un'ampia letteratura: dichiarazioni di collaboratori del calibro di Giovanni Brusca; sentenze della Cassazione sulla strage dei Georgofili; libri-testimonianza come quello del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso.
E poi ci sono le dinamiche dei fatti: la mancata sorveglianza al covo di Riina, le modalità del suo arresto, il blitz del comandante Di Caprio in base alla cartina di Palermo con l'indicazione di via Bernini. E poi niente più stragi e l'inabissamento, puntualmente ottenuto, che erano appunto la richiesta dal lato dello Stato.
Sul fronte della contropartita - anche tralasciando i meccanismi di concessione e i limiti d'uso delle intercettazioni; o le nuove norme per "regolamentare" le dichiarazioni e concedere i benefici a pentiti e collaboratori di giustizia; o la prossima riforma del processo penale - vanno messe nel conto le finte aggravanti che spostano i processi ai mafiosi dai Tribunali territoriali (e relative Direzioni distrettuali antimafia) alla competenza delle Corti d'Assise, e che, assieme al cosiddetto "processo breve", con i limiti temporali imposti anche nel caso di indagini complesse come quelle che riguardano l'associazione mafiosa, di fatto comporteranno l'azzeramento dei procedimenti prima che possano essere adeguatamente istruiti.
In contemporanea, sul fronte delle garanzie patrimoniali, si sono avuti due eventi concatenati: lo scudo fiscale per il rientro senza indagini e senza sanzioni dei patrimoni occultati e illegalmente detenuti all'estero; la messa all'asta o, in assenza di compratori che si presentino al pubblico incanto, la vendita diretta a trattativa privata anonima dei beni confiscati ai mafiosi.
Secondo punto, che fa tanto incazzare (parole sue) il senatore Dell'Utri, la questione dei nuovi referenti politici di Cosa Nostra e la presenza mafiosa ad Arcore, tra minacce di rapimento e investimenti a Milano2. Dell'Utri dice: minchiate, non conoscevo Ciancimino, non ho mai conosciuto Provenzano, non ero il loro referente e non c'è stato alcun rapporto tra la mafia e Berlusconi, i soldi a Milano2 erano tutti limpidissimi.
Ma che Dell'Utri conoscesse l'ex sindaco e avesse avuto a che fare con le sue imprese lo dice il fatto che Vito Ciancimino fosse socio, assieme all'ex assessore Francesco Paola Alamia e al costruttore Filippo Alberto Rapisarda, in una molteplicità di aziende di costruzioni e società immobiliari. All'epoca del sacco di Palermo, Ciancimino era il rappresentante istituzionale e il referente economico-politico del clan dei corleonesi; aveva stretti rapporti d'affari con il Consorzio Sicilcasa di tale Pedalino (ex Psi), con la ditta Civello & Zummo, nella Vis Costruzioni, nella In.Im, Investimenti Immobiliari di proprietà dello stesso Rapisarda di cui Marcello Dell'Utri fu per un periodo dipendente, abitando allo stesso indirizzo della società. Come a dire: casa e bottega. Rapisarda era anche titolare della fallita Venchi Unica nella cui bancarotta fu coinvolto Alberto Dell'Utri, il fratello gemello del senatore, che della società era l'amministratore delegato. Incroci e conoscenze d'affari molteplici e condivise.
Queste sono le cose che è bene ricontestualizzare e aver sempre presenti, sia quando parla il figlio di don Vito, sia quando smentisce il senatore Dell'Utri. Per il resto: sui rapporti mafiosi e con i mafiosi, su chi era referente di chi, sul fatto che la mafia abbia trovato altri interlocutori nella seconda repubblica su cui far convergere voti e consenso, tanti voti e tanto consenso come neppure don Vito Ciancimino né il deputato Dc Salvo Lima avevano mai avuto, fino al "botto" del 61 a zero; e sulle relazioni pericolose - come l'ingaggio ad Arcore di Vittorio Mangano - e sugli investimenti dei capitali riciclati da Cosa Nostra nelle imprese del Nord - non tanto limpidi se un alto funzionario della Banca d'Italia come Francesco Giuffrida non riuscì a risalire alle origini e ai "conferitori ultimi" di un centinaio di miliardi di vecchie lire, transitati dalla Banca Rasini alla Fininvest - questo è proprio quello che stanno cercando di accertare, facendo il loro mestiere e il loro dovere, i pm di Palermo.
Tutto il resto è fumo. Tanto da confondere le idee e trasformare Massimo Ciancimino in un pazzo, un mitomane, lo scemo del villaggio, manovrato dai pm. Tanto da sollevare uno di quei polveroni spessi dentro cui tutto affonda: la Gladio, la P2, il caso Moro, Sindona, soprattutto la verità. E le domande restano sempre le stesse: perché? a chi giova?

Liberazione 16/02/2010, pag 12

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