venerdì 19 marzo 2010

Thailandia

di Junko Terao
THAILANDIA
Opposizione in piazza: il nostro sangue per riavere Thaksin
Sono arrivati in centomila e hanno imposto un ultimatum al premier Abhisit Vejjajiva, anche se lui l'ha garbatamente ignorato. Hanno percorso le strade di Bangkok urlando slogan contro il governo dai megafoni montati sui furgoncini ma non hanno avuto molto seguito: la protesta delle «magliette rosse» tailandesi - i sostenitori dell'opposizione e dell'ex premier Thaksin Shinawatra - arrivate sabato scorso nella capitale per chiedere le dimissioni del premier continua, ma senza grande successo. Almeno per ora.
Ieri, dopo lo smacco dell'aut aut respinto dal premier - «dobbiamo ascoltare l'opinione di tutti, non solo quella dei manifestanti», ha risposto Abhisit ai rossi che gli avevano dato tempo fino alle 12 di lunedì per dimettersi e indire nuove elezioni -, i centomila si sono ritirati nel loro quartier generale, all'esterno di una caserma della capitale, per decidere le mosse successive.
Come già più volte negli ultimi due anni, la manifestazione iniziata domenica è stata imponente, ma rispetto all'aprile 2009, quando ci scapparono due morti e diverse decine di feriti, il tono è dichiaratamente non-violento. Il motivo della protesta è sempre lo stesso: i rossi chiedono la testa del premier, salito al potere nel 2008 in seguito alle manifestazioni di massa dell'allora opposizione e a un verdetto della corte suprema che dichiarò illegali i partiti della coalizione di governo, facendo venir meno la maggioranza. Un «trucco», secondo i detrattori di Abhisit, dettato dagli stessi interessi che nel 2006 avevano portato al colpo di stato e alla destituzione di Thaksin Shinawatra, ex tycoon delle tv condannato per abuso di potere e corruzione e ora in esilio.
Ed è proprio Thaksin che i rossi invocano a gran voce e che ieri ha fatto il suo ennesimo intervento telefonico pubblico esortando i suoi sostenitori a «lottare per riportare la democrazia nel paese». I rossi assicurano di esser pronti a tenere il punto per giorni, ma difficilmente riusciranno a vincere la prova di resistenza. La sfida tra loro e Abhisit è una questione di pazienza: chi cederà per primo? Il premier ha già fatto sapere di essere pronto ad ascoltare le loro ragioni, senza però cedere al ricatto.
Un atteggiamento nuovo rispetto al passato. Un anno fa Abhisit, ancora fresco di nomina, non aveva ostentato tanta sicurezza. Ma ieri, allo scadere dell'ultimatum, è apparso in tv circondato dai suoi ministri e dagli alleati per spiegare le sue ragioni. Quel che è certo è che non potrà continuare a ignorare la divisione netta del paese: i contadini delle campagne per Thaksin, le élite urbane e i militari con Abhisit. Per strada il clima è tranquillo. A parte due granate fatte esplodere all'interno di una caserma, non si sono registrati scontri.
La vera preoccupazione è per la protesta in programma oggi: in una sorta di performance, i rossi hanno intenzione di versare intorno alla sede del governo decine di migliaia di «litri di sangue» dei manifestanti. «Il premier dovrà passare sopra il nostro sangue se vorrà andare a lavorare domani», hanno avvertito lunedì le magliette rosse. L'annuncio ha fatto scattare l'allarme: il timore è per le conseguenze di eventuali prelievi fai da te, e per il pericolo di contagio di malattie infettive.

Il Manifesto 16 Marzo

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di J. T.
THAILANDIA, PROTESTA SPLATTER DELL'OPPOSIZIONE
«Via il premier», litri di sangue sul palazzo
Bangkok tinta di rosso. Non solo del rosso delle magliette dei centomila sostenitori del Fronte per la democrazia contro la dittatura che da domenica sfilano pacificamente nella capitale tailandese, ma anche del loro sangue. I manifestanti antigovernativi (nella foto ap) ieri hanno dato vita alla protesta/performance più «splatter» della storia del paese. Partiti alle quattro del pomeriggio dal centro dove nella mattinata avevano raccolto il sangue dei volontari (300mila cc secondo gli organizzatori), hanno raggiunto il palazzo del governo armati di taniche, bottiglie di plastica e siringhe cariche del liquido rosso. I poliziotti hanno fatto passare solo alcuni di loro, che davanti alle telecamere hanno versato il sangue tingendo l'ingresso della sede del governo, dove il premier Abhisit Vejjajiva si sarebbe dovuto «imbrattare i piedi per andare al lavoro». Questo lo scopo: un «rituale simbolico» per ottenere le dimissioni del premier. A chi, preoccupato per le conseguenze igienico sanitarie, aveva lanciato l'allarme, i rossi hanno assicurato che ad effettuare i prelievi sono stati medici e infermieri. Il premier non si è scomposto, ha ripetuto che il governo non userà mezzi violenti per sedare le proteste e ha commentato: «Con questo atto simbolico i manifestanti fanno riferimento a uno spargimento di sangue, ma non è questo il caso. Non ci sarà nessun bagno cruento». Le immagini della protesta rossa hanno fatto il giro del mondo, ma tutto, dagli slogan populistici - «doniamo il sangue per la democrazia», «il sangue del popolo è potere» e via dicendo -, alla scarsa verve dei manifestanti, all'obbiettivo poco chiaro - un generico «ritorno dell'ex premier Thaksin» condannato per truffa e abuso di potere e ora in esilio, evidenzia la debolezza del movimento. Il sospetto, poi, che i centomila arrivati dalle campagne siano arrivati a Bangkok dietro un compenso in denaro da parte degli organizzatori e non spinti dal desiderio di «lottare per la democrazia» è sempre più forte.

Il Manifesto 17 Marzo

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di Renato Novelli
THAILANDIA
Se la società interviene nella partita di potere tra Thaksin e le élite
Nel cuore di Bangkok, al quinto giorno della marcia per ottenere le dimissioni del governo e nuove elezioni, le «camice rosse» hanno offerto il momento più spettacolare della loro protesta: il sangue di mille volontari, raccolto il giorno prima, è stato gettato al'ingresso della residenza del premier Abjisit Vejjajiva. Martedì avevano irrorato l'entrata degli uffici governativi e della sede del Partito democratico. Weng Tojinakarn, leader della manifestazione, dice di augurarsi che il sangue apra un dialogo. Le camice rosse, che reclamano «democrazia» e il ritorno del deposto premier Thaksin Shinawatra, sono per la verità divise in modo ormai visibile in tre fazioni: i moderati che fanno capo al gruppo parlamentare (198 deputati), i duri (mobilitazione senza compromessi) e i «clandestini», pronti ad azioni violente. Il premier Abjisit si è detto disposto a incontrare Veera Thangsuban, leader dei moderati. E' improbabile che il governo si dimetta, e anche che la prova di forza continui a lungo (le ali estremiste dei «rossi» anzi sono convinte che la trovata del sangue serva a chiudere la kermesse e rimandare tutti a casa); il numero dei partecipanti è già calato spontaneamente.
La protesta in scena a Bangkok è una partita tra l'esiliato leader Thaksin e le élite di governo dei partiti moderati, nota Shawn Crispin, commentatore di AsiaTimes online. Lo scontro tra «democrazia» e «oligarchia militare», evocato nei messaggi dello stesso Thaksin, si riduce alla contrapposizione tra lui stesso, con il suo partito populista (ben posizionato nelle regioni più povere del nord est rurale), contro il governo formato dal Partito democratico, fautore di timide aperture sociali con tecnocrati al timone. Le camice rosse non hanno saputo conquistare altre zone del paese. Mentre le élite liberali impegnate, composte dai ceti medi urbani e comprensive di parte del «terzo settore», le ong, insieme ai partiti moderati, non hanno per ora saputo agganciare la parte depressa ma molto rappresentativa del paese. I contadini poveri non dimenticano il programma del governo Thaksin «un progetto per ogni villaggio» o quello dell'assistenza medica per 25 bath (mezzo euro), indipendentemente dai risultati reali (pochi soldi distribuiti sotto controllo clientelare). I ceti liberali e impegnati nel sociale non dimenticano le scorciatoie legali ideate dal leader milionario per sé stesso, i progetti faraonici senza rispetto per l'ambiente, la guerra alla droga con i morti nelle strade delle metropoli, il clientelismo esasperato e i profitti personali.
Lo scontro è ancora e sempre sul passato come fondamento della legittimità del presente. Le voci si inseguono. Thaksin vuole un ridimensionamento del ruolo della monarchia, dopo il passaggio dal prestigioso ed amato re Bhumipol (83 anni) al successore (ma sarà proprio il figlio a succedergli?) e intanto mantiene rapporti apertamente complottardi con ex ufficiali suoi amici o ufficiali di cordate perdenti (per ora). La sua intesa con il leader cambogiano Hun Sen, materializzata in una «consulenza», non è una mossa popolare. Intanto il ricco esiliato ha trovato un nuovo rifugio: il Montenegro ieri ha confermato di avergli concesso la cittadinanza.
Resta una questione di fondo: le élite politiche modernizzanti, in Thailandia, non possono pensare di gestire la transizione asiatica verso la centralità cinese senza una diversa mobilitazione orizzontale nella società. Per decenni i gruppi sociali intellettuali, critici, fautori di una modernizzazione democratica, hanno tenuto banco nei rapporti con le società avanzate, con sguardo critico sul modello asiatico di sviluppo, e hanno contribuito in quantità e qualità alla crescita della società thai. Oggi, dopo il ridisegnarsi delle economie reali seguito al crollo degli anni '90, potrebbero saldarsi in concreto con i gruppi popolari nazionali e la società civile dell'intera regione, con un programma di sperimentazione di forme più articolate ed avanzate di democrazia. Allora lo scontro di potere tra Thaksin e le élite politiche tradizionali finirebbe per richiamare la lunga tradizione peninsulare dei combattimenti dei galli.

Il Manifesto 18 Marzo

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