martedì 9 marzo 2010

Quel "visionario" di Giorgio Baratta, anticipatore instancabile

Fabio Frosini
Cosa dire di Giorgio Baratta? Quando una vita si chiude, tutto di essa viene posto in prospettiva, le asperità di un percorso acquistano un significato, come in un racconto compiuto; i singoli momenti si svelano funzionali a un'unità - bene o male - di ordine superiore. Tentando di superare il dolore, il senso di mancanza, di vuoto che questa morte mi procura, tenterò di "raccontare" Giorgio, per quello che posso, dalla mia prospettiva, in tutta la sua parzialità.
Di lui mi ha sempre colpito il modo in cui seguiva il suo demone: in uno stato di totale e contagiosa soggezione. Ho frequentanto Giorgio in questo ultimo venticinquennio, e nel variare dei modi in cui il suo demone si manifestava, nel cambiare dei terreni nei quali si esercitava, egli rimaneva incredibilmente uguale a sé stesso. Ciò che lo dominava (e forse a volte lo tiranneggiava) era l'ansia di creare nuove forme di realtà. Al pari di un artista, Giorgio provava a comporre insieme pezzi di mondo, per vederne scaturire le scintille della novità inaudita. Così uno tra moltissimi esempi possibili - in mezzo allo scetticismo dei più - "convinse" (con la dolce violenza che chi lo ha conosciuto ricorda) Luciano Berio, Enrico Baj, Franco Fortini, Dario Fo e tanti altri a venire in momenti diversi a Urbino - l'Università dove ha insegnato a lungo - a parlare di arte e di comunismo.
Giorgio era un visionario (come lo ha così bene definito Giovanni Semeraro). Non nel senso di acchiappanuvole, ma di chi vede ciò che gli altri non vedono (ancora). Per questo si collocava sempre all'origine, all'inizio: anticipava i temi e i problemi, semplicemente. E in questa anticipazione scoccava per lui la gioia ma anche il tormento della creazione, la necessità di affidare ad altre mani la cura dell'esecuzione, la costruzione dell'infrastruttura. Anche per questo era sempre circondato da un numero impressionante di collaboratori, il cui compito consisteva essenzialmente nel dare continuità a ciò che Giorgio, instancabilmente, continuava a iniziare .
A lla visionarietà corrispondeva la varietà apparentemente dispersiva degli interessi in cui dilagava la sua attività. Cito da un curriculum da lui scritto nel 2004: «Autore di monografie e saggi sulla filosofia del Rinascimento e dell'Illuminismo, sul "paragone delle arti" di Leonardo, sul pensiero di Hölderlin, Marx, Gramsci, Sartre ed altri pensatori. Autore di ricerche e interventi su vari argomenti musicali (Leonardo e la musica; Verdi nella cultura italiana; poesia e musica nella bossa nova; il pensiero musicale di Adorno, ecc.). Ideatore e curatore di manifestazioni dedicate alla musica nel contesto del paragone delle arti nell'età elettronica». Come isolare un tema? Privilegiare una disciplina, un approccio? Conta invece il filo conduttore che tutti unisce, filo che possiamo trovare, credo, scegliendo di partire da uno qualsiasi degli interessi di Giorgio.
Prendiamo Gramsci, che forse è stato il luogo in cui Giorgio maggiormente si è soffermato (insieme a Husserl, l'autore sul quale si è laureato e a cui ha dedicato nel 1969 un libro. La periodizzazione è questa: la fenomenologia è l'amore di gioventù, fino alla metà degli anni Sessanta. Poi c'è la rivoluzione, l'attività politica frenetica. Gramsci arriva all'inizio degli anni Ottanta, come luogo in cui ricostruire le ragioni di una sconfitta e le premesse di un'altra lotta). Di Gramsci, Giorgio ha dato una lettura che oggi mi appare sempre più compatta, nel variare dei temi; una lettura che può essere riassunta nel trinomio comunismo, americanismo, traducibilità (contrappunto). Nella stessa disomogeneità di questi tre concetti, c'è la difficoltà intrinseca a un esercizio di lettura, secondo il quale il comunismo era qualcosa di presente, nei corpi e nelle capacità messe in relazione e al contempo segregate, isolate "solipsisticamente" da una civiltà americanistica, nella quale tutta la cultura occidentale viene consumata e insieme riemerge in forme materializzate e per questo altamente simboliche.
Dinnanzi a questo universo bloccato, la filosofia della prassi gioca la carta della traducibilità, che Giorgio sempre più decisamente, col tempo, ha preferito chiamare col termine musicale di contrappunto. Questa è un'arte sottile, che rimette in movimento le monadi bloccate, riconsegnandole alla parzialità di prospettive che possono unificarsi solo nella loro differenza, radicandole quindi in una materialità non feticistica. Identità e diversità rimangono momenti contrappuntisticamente in bilico, e nel movimento pendolare che li unisce e divide sta l'universalità.Questo senso corporeo e insieme musicale della realtà come identità/diversità può forse essere riassunto, meglio che da qualsiasi altra teoria, in un passaggio dell'Empedocle hölderliniano, un'opera a Giorgio carissima anche per ragioni biografiche (fu attore, insieme ai figli Martina e Vladimiro, nel film che Straub costruì su questo testo): a Pausania, che gli chiede sconcertato «E tutto deve trapassare?», Empedocle risponde: «Trapassare? Ma il permanere è come la corrente che il gelo incatena. [...] Dorme forse o sosta in qualche luogo il sacro spirito della vita, da poterlo tu avvincere?».

Liberazione 22/01/2010, pag 1 e 4

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Il sorriso di Giorgio Baratta

La scomparsa di Giorgio Baratta è certamente molto grave per gli studi gramsciani e per la "sua" International Gramsci Society, ma chi non l'ha conosciuto di persona non può capire quanto essa sia grave anche per molti di noi, a cominciare dai suoi amici ed allievi. Disse una volta Dossetti che purtroppo nella nostra società era "finita la colla", cioè quello che deve tenere insieme le persone e le forze, e senza cui una società regredisce a forme ferine; ebbene Giorgio era una "colla" meravigliosa, un compagno che lavorava pazientemente, e però sempre con entusiasmo, a tenere insieme le esperienze, le culture, le diverse forme d'arte, i compagni, e anzi lavorava a inventarsi nuovi nessi e a renderli vitali (questo è stato nell'ultima parte della sua vita il progetto "Terra Gramsci" e il rapporto che egli ideò e costruì con Bahia e il Brasile e con il Venezuela bolivariano).
La rilettura di Gramsci secondo l'ottica degli "studi culturali" che fioriscono nel mondo intero (forse la più originale e duratura lezione di Baratta, che ha improntato di sé tutto il decennale gramsciano del 2007) deriva direttamente, a ben vedere, da un tale approccio, che era ad un tempo personale e politico-culturale.
Questo rapporto solidale con il mondo intero spiega il sorriso di Giorgio Baratta; un sorriso che non serviva a nascondere le sue sofferenze (che credo siano state profonde), ma sì invece a infondere a chiunque entrava in rapporto con lui coraggio e fiducia in se stessi e apertura verso il mondo. Lo ricordano così i miei studenti di Tor Vergata che hanno assistito ai periodici, entusiasmanti seminari gramsciani che teneva da noi, e lo ricordano di certo così i laureandi e le laureande a cui egli offriva sempre generosamente il suo grande sapere e il suo tempo, e ciò perfino nelle ultime settimane della sua malattia e della sua vita.
Non sono molti, io credo, i grandi intellettuali marxisti che saranno ricordati per il loro sorriso. Forse solo ora capiamo quanto quel sorriso prefigurasse la gramsciana società in cui gli uomini, "quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo (…) si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi".
Raul Mordenti

Liberazione 24/01/2010, pag 11

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