venerdì 19 marzo 2010

La diversità comunista contro il trasformismo

Raul Mordenti
Nel suo bell'articolo per il manifesto del 21 febbraio, "Capo corrotto, nazione infetta", Alberto Asor Rosa pone nei suoi veri termini, storico-politici, la questione della corruzione, anzi della degradazione etica, che emerge come un fiume di fango dal berlusconismo. Il vero problema politico che abbiamo oggi di fronte è che (al contrario di quanto potrebbe sembrare!) il berlusconismo sul tema della corruzione ha dalla sua parte il "senso comune". Il carattere melmoso del potere che ci governa non si tramuta affatto (o, almeno: non si tramuta spontaneamente) in opposizione e rivolta giacché esso si incontra con caratteristiche torbide e profonde presenti nell'ethos della nazione italiana, con il "chisssenefrega" e con il "'cciò famiglia", con "l'uomo del Guicciardini" ancora presente fra noi (come denunciava De Sanctis all'indomani del Risorgimento), cioè con l'italiano che per il "particulare suo" è disposto a tutto; insomma Berlusconi si incontra con una sorta di rassegnato e complice cinismo di massa, di un popolo abituato a secoli di servitù e di servilismo, e che per questo sembra incapace di indignazione. La presenza organizzata dei comunisti seppe rappresentare nella storia italiana anche il miracolo della rottura con quel corrompimento pervasivo e secolare, cioè seppe costruire un ethos politico di massa caratterizzato da rigore, disinteresse, vera e nuova moralità; e non ci si dovrebbe sorprendere del fatto che, una volta rimossa e distrutta e rinnegata con ogni mezzo quella presenza comunista, si sia ripiombati - per dirla con Marx - nella "vecchia merda".
Ora, io credo che anche gli episodi di trasformismo che caratterizzano in questi giorni la composizione delle liste per le regionali debbano essere letti da noi con questa ottica razionale, e non vissuti come frustrazioni o, peggio, come fattori di abbandono e rassegnazione (e dunque di astensionismo).
Certo, lo spettacolo è desolante e, francamente, anche un po' ripugnante: assessori, consiglieri, presidenti, etc. designati e creati dal nostro Partito che lo abbandonano con assoluta disinvoltura, senza che nessuno senta il dovere di rimettere il mandato dopo aver cambiato idea e partito; altri/e che si scoprono d'improvviso fans di Di Pietro (o dei suoi seggi), magari dopo averlo insultato, e dopo avere rimproverato al Prc il suo atteggiamento unitario verso l'IdV; compagni da sempre alla nostra "sinistra" che si candidano disinvoltamente nella lista civica della Bonino, e così via. Noi stessi non ci siamo purtroppo fatti mancare la spettacolo (invero non esaltante) di candidature "in deroga" dello Statuto (cosa c'è di più berlusconiano che l'eccezione personale alla regola?) ma si assiste perfino a candidati alle europee con "SeL" che sono ora candidati alle regionali con Berlusconi e la Polverini!
Il fatto è che se si rimuove ciò che noi chiamiamo partito o, comunque lo si voglia chiamare, se manca un nesso che leghi un politico a un progetto ideale e a un collettivo di uomini e donne che lo condivide, allora la politica diventa davvero quella "cosa sporca" che le masse percepiscono. Essa si riduce infatti al mestiere di un vero e proprio ceto di piccoli professionisti delle istituzioni, dunque mobili e largamente intercambiabili, insomma disposti più o meno a tutto pur di conservare il proprio ruolo.
Il tragico paradosso sarebbe che anche il giusto schifo della nostra gente per questi comportamenti finisse per tramutarsi in astensionismo rivolgendosi così contro di noi, e non contro i veri responsabili (qualcosa di analogo è avvenuto anche con la scissione di "SeL", e invano Giuseppe Prestipino ricordò che «la ferita non ha le stesse responsabilità del pugnale»); così i comunisti sarebbero, come si dice a Roma, "cornuti e mazziati", cioè colpiti prima dai voltafaccia di questi istituzionali e poi anche dalla sacrosanta collera popolare contro di loro.
Dobbiamo allora riportare anche la questione del trasformismo del ceto politico alle sue vere ragioni, che sono ragioni politiche e, più precisamente, di classe. Anche il trasformismo (con la sua conseguenza: l'astensionismo) c'era in Italia prima dei comunisti, cioè i socialisti prima del 1921 si dividevano fra chi veniva regolarmente comprato da Giolitti e chi resisteva, ma in modo subalterno, astenendosi dal voto. L'unico modo di combattere davvero il trasformismo è dunque costruire un nuovo Partito comunista, capace di tenere assieme, nella democrazia e nel consenso, la classe operaia e i suoi intellettuali, le masse popolari e i necessari rappresentanti nelle istituzioni. Nuove e rigorose regole possono servirci molto: non rieleggibilità, rotazione, incompatibilità, quote paritarie fra i sessi, maggiore presenza di lavoratori, equiparazione del reddito degli istituzionali ai salari operai, etc.
E' la diversità, anche etico-politica, dei comunisti ciò che noi abbiamo da opporre anche a questa brutta ventata neo-trasformista. E questa diversità vive già oggi nelle nostre liste regionali.

Liberazione 25/02/2010, pag 10

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