giovedì 9 dicembre 2010

A Gaza ritornano le merci, il business dei tunnel è finito

Allentato il blocco israeliano, la Striscia respira, ma serve l'export

Francesca Marretta
Gaza
Se non fossimo nella Striscia di Gaza, la prima impressione al ritorno tra le dune di sabbia da cui spuntano i tunnel di Rafah, dove questo novembre il sole è a picco, sarebbe il "chiuso per ferie". Siamo invece nell'enclave palestinese governata da Hamas e nei tunnel non si lavora più, perchè è ripreso il traffico di merci proveniente da Israele. Fino a pochi mesi fa, questa landa pareva un formicaio. L'indotto dei tunnel, che sono almeno 2500, dava lavoro a 15mila persone. Dopo la crisi internazionale seguita all'uccisione, da parta dell'esercito israeliano, di attivisti turchi su una nave della Freedom Flottilla, il valico di Kerem Shalom è stato riaperto. Le chiusure duravano dal 2007. Il blocco si è allentato da giugno e ora nei mercati e nei negozi di Gaza, si trova di tutto e a prezzi abbordabili. Non entra il materiale da costruzione, computer, e altri articoli che figurano ancora nella black-list degli israeliani. Negozi pieni e ribasso dei prezzi rallegrano i più a Gaza. Ma si tratta di un'abbondanza che ha gettato sul lastrico i lavoratori dei tunnel, che si aggiungono all'esercito del 40% dei disoccupati a Gaza. A far da guardia a uno dei cunicoli, è rimasto un gatto nero che gironzola indisturbato. Funzionano solo le carrucole che tirano su cemento, ferro e ghiaia. Nei mesi scorsi il flusso dei commerci nei tunnel si era invertito. Era cominciato l'export di beni alimentari verso l'Egitto e anche di materiali di scarto, presi dalle macerie.
Da qualche giorno, però, Hamas ha vietato "l'export" via tunnel di certi generi alimentari, dopo che il prezzo delle uova si era alzato troppo. La legge della domanda e dell'offerta, vale anche per quest'economia del tutto anomala. Che tuttavia una volta esisteva. All'ingresso di un tunnel, su cui si innalzano teloni bianchi, è parcheggiato un camion carico di sacchetti di cemento. Ci avviciniamo, ma il piccolo gruppo di manovali, ci riceve, dapprima, in malo modo. Ogni volta che arrivano giornalisti stranieri, dicono, Israele bombarda. Nonostante l'accoglienza fredda, bastano pochi minuti di chiacchiere a creare un capannello di lavoratori pronti a dire la loro. Nel periodo d'oro dell'attività dei tunnel, subito dopo la guerra a cavallo del 2008-2009, traghettare merci da questi cunicoli, fruttava anche cento dollari al giorno. Oggi, data l'abbondanza di manodopera, si rischia la vita per 70-80 shekel (16 euro) a giornata. Il più arrabbiato di tutti per la situazione a Rafah è Marwan Abu Khamis, di Khan Younis, 52 anni e 10 figli. Ha i capelli bianchi, sembra molto più anziano della sua età anagrafica e ha i denti ingialliti, come molti abitanti delle zone povere di Gaza. E' vestito con indumenti sbiaditi, che mostrano i segni dell'usura. Indossa ciabatte, da cui spuntano piedi che non hanno visto una scarpa comoda per troppo tempo. Almeno dai tempi in cui, come altre migliaia di lavoratori, Marwan percorreva ogni mattina il valico di Eretz per andare a lavorare in Israele come manovale. «A quell'epoca guadagnavo fino a 300 shekel al giorno, ed era un lavoro vero». Marwan non scende nei tunnel. Trasporta i sacchi arrivati in superficie. Un lavoro che rende una miseria, dai 30 ai 50 shekel al giorno. Alla domanda: «Stavate meglio quando c'era l'Anp?», si leva un coro unanime. Ibrahim Barbah prende la parola : «Non lavoriamo perchè quelli di Hamas danno soldi e lavoro solo ai loro». Nonostante questo, alcuni dei presenti, pur non simpatizzanti del movimento islamico, dichiarano di ricevere, dal governo di Hamas, pacchi-dono di generi alimentari ogni tre mesi: farina, riso, scatolette.
La regola della carità islamica è rispettata. In un tunnel vicino si tira su ghiaia. Il proprietario, Mohammed Zora, 35 anni, parla della crisi dal punto di vista imprenditoriale. «Siamo cinque soci. Prima che aprissero i valichi trasportavamo di tutto. Il guadagno netto arrivava a tremila dollari al giorno. Impiegavamo 32 operai. Facevano due turni, sedici e sedici. Ora si alternano otto manovali per turno». Mohammed non è sposato, indossa una tuta Adidas bianca e blu, pulitissima, nonostante la polvere. Lui supervisiona, non si sporca le mani. Se potesse, dice, tornerebbe ai tempi in cui poteva andare a lavorare in Israele: «Quella sì che era la dolce vita». Se i tunnel sono stati in questi anni la via di approvvigionamento per superare il blocco, Gaza ha bisogno, ora, disperatamente, di esportare. Alla fabbrica di biscotti Al Adwa di Gaza City, sono a terra pacchi su pacchi di biscotti. Una volta venivano esportati per il 40% in Cisgiordania. E se per la durata del blocco la produzione artigianale dell'Al Adwa era assorbita dal mercato interno, gli abitanti di Gaza sgranocchiano oggi per meno soldi i biscotti industriali Made in Israel, rendendo il prodotto troppo caro al confronto, sebbene migliore. Una volta Gaza esportava fino a trecento milioni di dollari di merci l'anno, dal tessile, a frutta e verdura.
Il Generale israeliano Eitan Dangot, coordinatore per le attività del governo israeliano nei Territori palestinesi occupati, ha dichiarato due giorni fa che entro i primi tre mesi del 2011, Israele consentirà le esportazioni, «se le misure di sicurezza lo permetteranno». L'ufficiale israeliano ha aggiunto: «Non vogliamo che Hamas si prenda crediti per questa decisione. Si tratta di accordi raggiunti con l'Anp». Uno dei leader massimi di Hamas a Gaza, Mahmoud Zahar, ex ministro degli Esteri, ha dichiarato che da parte del movimento islamico non vi saranno interferenze all'export. E' però possibile che Hamas imponga le sue tasse, come fa su tutto. E' questa una delle tante ragioni per cui il consenso per gli islamisti nella striscia è calato. Arriva al massimo al 30%. Lo dicono responsabili di organizzazioni per i diritti umani, come Khalil Shaklin del Palestinian Center for Human Rights, giornaliste come Riham Abdelkarim di Mbc e cittadini. Quello di cui i palestinesi di Gaza danno atto al movimento islamico, è poter girare sicuri. A Gaza non ti tocca nessuno. A meno di parlar male di Hamas o comportarsi in maniera anti-islamica. Ovunque orecchie invisibili sguinzagliate da Hamas, restano in ascolto. Un gruppo di giornalisti palestinesi, seduti all'Orient House, il nuovo ristorante del Beach Hotel, sul lungomare, definisce gli agenti in borghese di Hamas "i drone", aerei spia senza pilota. Devono solo riferire, senza pensare.

Liberazione 26/11/2010, pag 6

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