giovedì 9 dicembre 2010

Il berlusconismo fa cultura. Perché noi no?

Si chiama Ufa, ufficio formazione e autoformazione. Un progetto del Prc inaugurato da poco
Tonino Bucci
Il settantacinque per cento della popolazione italiana ha come unica fonte di informazione politica i telegiornali. Dove non arrivano i talkshow, i Ballarò e gli Annozero, imperversano i programmi d'intrattenimento, a metà strada tra il varietà e il chiacchiericcio, un universo mediatico popolato da veline, palestrati, esperti tuttologhi, opinionisti à la page. Report e l'Italia in presa diretta - per citare un paio di meritevoli programmi d'inchiesta - non sono che una goccia nel mare vasto dei palinsesti televisivi, dove a farla da padrone sono le voci assordanti di Amici e del Grande Fratello. C'è un'offerta d'intrattenimento per tutti i target - casalinghe mattutine, giovani e meno giovani, bambini e anziani teledipendenti, mariti frustrati di ritorno dal lavoro. La televisione è la versione contemporanea della predica domenicale, un rituale che si ripete sullo schermo più volte ogni giorno. E' la palestra quotidiana del senso comune, la piazza "virtuale" in cui avviene ripetutamente il miracolo della trasformazione di una visione del mondo in ideologia dominante.
Liberarsi dal berlusconismo in questo paese non sarà affare di un parlamentare in più o in meno. Prima ancora che nelle urne e in parlamento, il berlusconismo vince da quindici anni a questa parte perché produce una cultura egemone - che si voglia o meno riconoscerlo. Ora maschio virile ora solerte padre di famiglia, infaticabile cacciatore di belle ragazze e meritevole imprenditore che s'è tirato su con le proprie mani, accanito consumatore di escort e spregiatore di gay, assiduo frequentatore di festini notturni ma anche self made man: sono le tante, innumerevoli varianti di un modello che ha conquistato l'immaginario collettivo. Alcove, veline e adolescenti compongono il ritratto di un Capo che suscita non riprovazione, ma ammirazione per il coraggio di esibire in pubblico comportamenti che si ritengono comuni a tutti, manco fossero vizi nazionali. Tutti fan così, lui almeno ha la faccia d'ammetterlo.
Capo carismatico e potente apparato mediatico: sono gli ingredienti essenziali della classe dominante per costruire il proprio consenso, anzi - ad essere più precisi - per fare in modo che i propri interessi parziali diventino senso comune, ideologia diffusa. Ma i dominati? «Come può una classe liberare se stessa se è ridotta a pensare con il cervello di chi la domina? Se condivide la visione del mondo, i valori, le narrazioni, il linguaggio di chi la opprime»? La home page del sito della formazione del Prc (www.rifondazione.it/formazione/blog) si apre con un testo di Raul Mordenti, responsabile del settore che ha preso il via da pochi mesi. Ogni classe sociale nel corso della storia ha avuto «il bisogno di organizzare la propria soggettività in quanto autonoma e ed antagonista rispetto allo stato di cose esistente. Il proletariato, come tutti i subalterni, per poter esistere autonomamente sulla scena della storia ha bisogno di pronunciare un preliminare "no", di contrapporsi a chi esercita il dominio, di separarsene come una parte si separa dal tutto, di diventare appunto un "partito". L'autonomia politico-culturale è all'inizio di ogni percorso di liberazione».
L'Ufa - ufficio formazione e autoformazione - propone dispense, testi consultabili online, e «brevi corsi comunisti», ognuno dei quali dalla durata di due giorni. Gli argomenti sono le origini del movimento operaio, le introduzioni ai "classici" (Marx,Gramsci, Lenin) l'analisi del fascismo di ieri e di oggi, la storia del Pci, il decennio rosso dal '68 al '77, il socialismo del XXI secolo e l'America Latina. Per ogni corso vengono distribuite in anticipo delle dispense. Il tempo di leggerle prima degli incontri. Si studia per davvero. «Pressappochismo e sciatteria non fanno parte dello stile di lavoro dei comunisti e delle comuniste».
La borghesia non ha bisogno di partiti per "formarsi, si organizza "spontaneamente" nelle banche e nei consigli d'amministrazione. Ma per il proletariato è un'altra storia. «La spontaneità del capitalismo nelle sue nuove e attuali forme produttive (il lavoro precario, quello a domicilio, quello "nero", quello neo-servile etc.) non tende affatto a organizzare il proletariato ma, al contrario, tende a distruggerlo, a ridurlo».

Liberazione 30/11/2010, pag 8

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