giovedì 9 dicembre 2010

«L'economia di carta distrugge la carta stampata»

"Il denaro e le parole", una riflessione sulla crisi dell'industria culturale

André Schiffrin Parigino trapiantato a New York ha diretto case editrici e lavorato nell'industria culturale fin dagli anni Sessanta

Guido Caldiron
«Il mondo delle parole e il suo rapporto con il denaro subiscono gli stessi grandi cambiamenti che stanno trasformando i nostri paesi e le nostre culture». La cultura e l'informazione sono a rischio: «quale futuro potranno avere in un mondo dominato solo dalla logica del profitto?».
André Schiffrin è cresciuto in mezzo ai libri fino a diventare un simbolo dell'editoria indipendente e della cultura libera. Figlio dell'editore francese Jacques Schiffrin è nato a Parigi nel 1935 ed è arrivato a New York da ragazzino: a soli 27 anni ha iniziato a lavorare alla Pantheon Books, per molto tempo la maggiore casa editrice indipendente statunitense, dove è rimasto per oltre per trent'anni. Negli anni Sessanta è stato tra i fondatori di quella che sarebbe diventata l'organizzazione Students for a Democratic Society e, nel 1990, ha fondato un'altra casa editrice fuori dagli schemi, The New Press, non smettendo mai, in tutti questi anni, di partecipare al dibattito politico e culturale americano.
L'editore Voland, che aveva pubblicato lo scorso anno Libri in fuga, dove Schiffrin racconta la storia della sua famiglia scappata dalla Russia per raggiungere prima Parigi e quindi gli Usa, propone ora Il denaro e le parole (pp. 120, euro 12,00), una riflessione sulla crisi dell'industria culturale, dell'editoria e della stampa che si segnala per documentazione e lucidità, proponendo anche diverse ipotesi per uscire dalla grave situazione attuale.
André Schiffrin è in questi giorni in Italia per partecipare alla 9a edizione di "Più libri più liberi", la fiera della piccola e media editoria che si svolge da oggi a mercoledi 8 al Palazzo dei Congressi dell'Eur a Roma, dove questa mattina alle 12.30 presso il Caffè letterario sarà intervistato da Marino Sinibaldi.

Signor Schiffrin, nel suo libro lei racconta con ironia come in Iran la caduta dello Scià sia stata accelerata dall'innovazione tecnologica: in particolare dalla diffusione clandestina delle audiocassette dell'ayatollah Khomeini. La stampa e l'editoria che abbiamo conosciuto fino ad oggi cadranno sotto i colpi di internet?
Tutti i dati disponibili ci dicono che sta accadendo qualcosa del genere: le risorse pubblicitarie si indirizzano sempre più verso la rete. Non solo, imprese europee acquistano spazi pubblicitari sui siti statunitensi e per così dire "delocalizzano" la propria offerta tematica per utilizzare i nuovi stumenti di comunicazione. Da questa situazione, in prospettiva, non può derivare che una crisi globale della carta stampata: negli Stati Uniti e in Europa, solo negli ultimi due anni, si sono persi qualcosa come venticinquemila posti di lavoro nei giornali e moltissime testate sono state chiuse. Il rischio è che si finisca per avere più giornalisti che giornali e che questi ultimi finiscano per perdere ogni significato e efficacia.

Dopo più di cinquant'anni passati tra libri e case editrici lei spiega che oggi per i grandi gruppi economici non c'è quasi più interesse ad investire nell'industria culturale, che garantisce dei ricavi sempre più incerti, e al massimo si può puntare sui bestseller della letteratura e su qualche mega produzione hollywoodiana. Come si può uscire da una simile situazione, apparentemente irrisolvibile?
La situazione in cui ci troviamo oggi è chiara, ce lo ha dimostrato la recente crisi finanziaria; le banche preferiscono giocare al Casinò, puntare sulla finanza, piuttosto che investire su beni concreti, su cose che possono produrre qualcosa di concreto. Negli ultimi anni il denaro si è in qualche modo moltiplicato da solo e ha smesso di svolgere qualsiasi "funzione sociale", ammesso che ne possa avere una. In questo contesto investire sui giornali o nell'editoria è apparso sempre più come qualcosa di inutile e certamente di "non redditizio". Proprio questa settimana sul New Yorker c'era un articolo molto interessante che si interrogava sul futuro della cultura e dell'informazione, chiedendosi più o meno "a cosa possono servire oggi"? E il bello era che a scriverlo era un giornalista di sinistra. Il punto è però proprio questo, come ho cercato di spiegare ne Il denaro e le parole: dobbiamo chiederci quale possa essere oggi il ruolo dell'industria culturale e per questa via immaginare anche come trovare nuove risorse economiche.

Nel libro lei indica come si debba guardare ancora al modello europeo di sostegno pubblico alla stampa e all'editoria, quasi del tutto assente negli Usa. Solo che con la crisi economica, come sta accadendo anche in Italia, quei finanziamenti subiscono tagli sempre più consistenti. Perciò, come fare?
Intanto si deve sbloccare il monopolio che la pubblicità ha acquisito sulla carta stampata e sulla tv: si tratta molto spesso di una sorta di controllo privato, visto che ci si misura con gruppi che concentrano sempre di più buona parte del mercato pubblicitario. Nel libro propongo ad esempio una "nazionalizzazione di google", che significa concretamente di far pagare una tassa al motore di ricerca per costituire poi un fondo che contribuisca al finanziamento dei piccoli editori, delle testate indipendenti, di radio e tv autonome. Un'altra prospettiva è quella di sviluppare di più il rapporto tra le istituzioni universitarie, l'editoria e la stampa: negli Stati Uniti ci sono parecchi esempi interssanti da questo punto di vista.

Negli Stati Uniti si discute molto anche sul cambiamento del linguggio e dello stile dei media, come segnala ad esempio il successo di una rete di destra come Fox News che più che informare offre al proprio pubblico opinioni esplicitamente di parte. Non è che la ristrutturazione produttiva della cultura registra anche le trasformazioni intervenute nell'opinione pubblica?
Non credo che nessun repubblicano, conservatore o reazionario che sia, sia disposto a considerare la tv di Rupert Murdoch come un modello di giornalismo: si tratta di uno strumento di propaganda molto efficace, questo sì, ma non di altro. Nessuno può confondere quanto detto dalla Fox con gli editoriali del Wall Street Journal, che certo non è un quotidiano progressista... No, direi che piuttosto la formula di Murdoch illustra come il denaro possa imporre la propria linea anche sui contenuti espressi da un media: il risultato però non può più essere confuso con l'informazione libera.

Ma come riproporre il ruolo della cultura e dell'informazione come beni pubblici in un'epoca caratterizzata dal monopolio della comunicazione e dal fondamentalismo del mercato?
Proprio l'Italia offre uno degli esempi peggiori da questo punto di vista, visto il quasi monopolio esercitato dagli interessi economici di Berlusconi sulla stampa e la televisione. Perciò siete forse voi che dovreste proporre a me qualche ipotesi di soluzione, visto che siete già arrivati al punto più basso di questa deriva. Quello che si può osservare sul piano generale è che il vero problema non è tanto rappresentato da quali romanzi o da quali libri di poesia si potranno leggere in futuro, ma dal fatto che gli strumenti della cultura e dell'informazione sono fondamentali per il funzionamento di una vera democrazia. Un esempio? Sono convinto che probabilmente gli Stati Uniti non sarebbero stati coinvolti nella guerra in Iraq se non fosse esistito quel monopolio informativo e culturale che ha fatto sì che George W. Bush potesse dire tranquillamente le sue menzogne, ad esempio sulle famose "armi di distruzione di massa", senza timore di essere smentito pubblicamente. Avere una stampa e una cultura libere non è un lusso, ma una parte essenziale di qualunque meccanismo democratico.

Liberazione 04/12/2010, pag 8

Nessun commento: