giovedì 16 dicembre 2010

Sta per scadere il divieto di "incroci" tra giornali e tv

La proroga della legge Gasparri, tra concentrazioni e conflitto di interessi

Beppe Lopez
E' "improprio vietare l'incrocio fra carta stampata e televisione". Non a caso lo ricorda anche l'editorialista di Repubblica (una conglomerata editoriale che, come la Rizzoli, da tempo aspira e un giorno o l'altro finirà con l'occuparsi al massimo livello anche di televisione commerciale, come già fa nei settori dei quotidiani, dei settimanali, dei mensili, dei libri, della radio, di internet e naturalmente, anzi in primis, della pubblicità). Perciò, tutti d'accordo, tutti in allarme, tutti meno Mediaset e Telecom: è assolutamente necessario, anzi ineludibile che il Parlamento in queste settimane, magari in sede di approvazione del mitico decreto "mille proroghe", decida di procrastinare oltre il 31 dicembre 2010 - termine fissato nella berlusconiana "legge Gasparri" del 2004 - il divieto per i proprietari di almeno due reti televisive nazionali analogiche di acquistare o fondare un quotidiano.
Nei giorni scorsi ha dovuto prendere carta e penna Corrado Calabrò, presidente dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, per lanciare l'allarme, e per sollecitare Governo e Parlamento, che evidentemente si sono... dimenticati della scadenza, ad assumere un "provvedimento apposito" a protezione di quel che rimane "della concorrenza e del pluralismo" nel sistema informativo. Se non si provvedesse immediatamente - e il tempo a disposizione è davvero poco - "l'impero berlusconiano dal primo gennaio potrebbe estendersi al Corriere della Sera". E la Telecom, dopo La7 e Mtv, potrebbe assicurarsi la proprietà, per esempio, di Repubblica o del Messaggero...
E in effetti la prospettiva sarebbe assai inquietante. Però, ci si chiederà, non è già inquietante lo status attuale, in vigenza di quel divieto? E' indubbio che al peggio non c'è limite e che - alla barbarie attuale di cinque canali televisivi nazionali su sette, del più grande gruppo editoriale e pubblicitario, e del governo del Paese direttamente controllati e al controllo mediato già di almeno due quotidiani, da parte di un sol uomo - si aggiungerebbe l'imbarbarimento ulteriore della possibile acquisizione ufficiale di un'altra, grande testata. Ma la verità è che il problema, grosso come una montagna, già ce l'abbiamo in casa. E quel "divieto" non lo ha certo eliminato o solo attenuato.
Ecco cosa esattamente si legge nel comma 12 dell'art. 43 del Testo Unico della Televisione, varato con decreto legislativo del 31 luglio 2005, n. 177: "I soggetti che esercitano l'attività televisiva in ambito nazionale attraverso più di una rete non possono, prima del 31 dicembre 2010, acquisire partecipazioni in imprese editrici di giornali quotidiani o partecipare alla costituzione di nuove imprese editrici di giornali quotidiani. Il divieto si applica anche alle imprese controllate, controllanti o collegate ai sensi dell'articolo 2359 del codice civile".
Ma è proprio con la normativa vigente, e con questo divieto (che non impedisce nemmeno il plateale controllo se non la sostanziale proprietà del quotidiano Il Giornale da parte del proprietario di Mediaset), che Berlusconi si è confermato e, se possibile, rafforzato - nonostante l'irruzione nel mercato italiano del monopolista della Tv satellitare Murdoch - come dominus del mercato televisivo e pubblicitario, mentre il mercato dei quotidiani veniva travolto dalla vocazione totalitaria della Rcs e del gruppo-Repubblica. Lì, come qui, si sono potentemente accentuati i fenomeni di concentrazione proprietaria, di omologazione informativa, di desertificazione dell'informazione locale, di progressivo restringimento (sino all'annullamento) delle iniziative editoriali indipendenti. Tutto questo, per quello che riguarda il mercato dei quotidiani, prendendosela - proprio loro, i grandi gruppi editoriali, che abusano della propria posizione dominante e di politiche commerciali particolarmente aggressive - con la mancata tutela statale di un settore in crisi perché, si sostiene, colpito dell'avvento di Internet e vittima della potenza e prepotenza televisiva.
In realtà, siamo di fronte a due fronti di uno stesso fenomeno: la concentrazione (sia per la Tv sia per l'informazione su carta). E non se ne esce con i pannicelli caldi del "divieto di incroci Tv-giornali", che peraltro non impedisce casi come quello del Giornale e non tiene conto nemmeno di altri protagonisti e mezzi tecnologici nel frattempo intervenuti con forza nello scenario televisivo nazionale, accanto alle reti analogiche, e cioè il digitale terrestre, satellitare e via cavo. Il problema di fondo rimane quello gigantesco del conflitto di interessi. Solo dopo aver rimosso questa emergenza, si potrà finalmente mettere mano ai problemi strutturali di questo settore, l'informazione, che per molti aspetti si intreccia e quasi si identifica con la democrazia. E si potrà procedere, ad esempio, alla definizione quantitativa e tipologica di misure antitrust capaci effettivamente di promuovere e tutelare il pluralismo. Accorgendosi, magari, che il vigente "divieto di incroci" è, oltre che inadeguato, innaturale. Gli incroci (giornali, tv, internet, ecc.) sembrano semmai da incoraggiare e comunque da non ostacolare. Consentono peraltro notevoli economie di scala ma soprattutto il naturale sviluppo, su diverse piattaforme, di professionalità e sensibilità per definizione "generaliste". I limiti hanno da essere quantitativi e riguardare principalmente la quota di risorse del mercato (pubblicità, vendite, abbonamenti, prodotti collaterali, ecc.) disponibili per un solo operatore.
Immediatamente dopo aver sgombrato il campo dal conflitto di interessi - o almeno dopo averlo più o meno decentemente regolato - la ricerca delle condizioni minime per un vero pluralismo degli operatori e delle "voci" dovrebbe inevitabilmente fare i conti e produrre la riforma del sistema televisivo; la ristrutturazione, il risanamento e il rilancio del servizio pubblico televisivo; l'introduzione di severi limiti e controlli anti-trust anche nel mercato dei quotidiani; la distinzione fra "editoria commerciale" e giornalismo d'impegno informativo o d'opinione, ai fini della riforma radicale dei contributi pubblici all'editoria...
Intanto, non è stato fatto nulla perché in Italia sorgessero e fossero incoraggiati veri editori, e perchè quasi tutte le testate quotidiane non finissero invece in mano a banchieri, finanzieri e industriali (che se ne servono per ben altri scopi che quelli meramente informativi o commerciali). Non possiamo probabilmente fare niente nel tempo breve perché, ad esempio, il Corriere della Sera possa tornare nelle mani di un vero editore. Ma almeno, in attesa di poter consentire e promuovere incroci virtuosi, cerchiamo di impedire la proliferazione e la legalizzazione di incroci sempre più perversamente e pesantemente al servizio della omologazione e manipolazione informativa...

Liberazione 10/12/2010, pag 5

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