Un excursus di Paolo Berdini dal Ventennio a oggi
Daniele Nalbone
«Le nostre città sono state devastate dalla speculazione edilizia e dall'abusivismo, e cioè da due segmenti della "libera" iniziativa economica». Nel suo ultimo libro, Breve storia dell'abuso edilizio in Italia, dal ventennio fascista al prossimo futuro (Donzelli, pp. 166, euro 16), l'urbanista Paolo Berdini spiega, in una sola frase, le "politiche-non politiche" abitative del nostro paese. Le origini dell'abusivismo risalgono alla Roma fascista e del dopoguerra. Per capire la dimensione del fenomeno, basta pensare che se nel 1909 gli abitanti nella Roma del sindaco Ernesto Nathan erano 519mila, nel 1931 il numero passò a 930mila. In poche parole, sotto il fascismo nacque quello che Berdini chiama «abusivismo naturale»: niente regole, niente prescrizioni. Era sufficiente il "consenso dell'autorità governatoriale", come riportato all'articolo 14 delle norme tecniche per l'applicazione del piano regolatore di allora, per aggirare qualsiasi divieto. Da quel momento in avanti, borgate e quartieri fantasma crebbero ovunque. Il risultato, come dimostrato da un aneddoto che Berdini porta ad esempio del non funzionamento di quelle non politiche, è che durante la visita di Adolf Hitler del 1938, per celare l'obbrobrio rappresentato da quegli insediamenti spontanei, venne realizzata una quinta di trompe l'oeil lungo via Tiburtina. Da quel momento in poi, ogni tentativo di pianificazione nel nostro paese verrà messo a tacere: il risultato finale è la totale «privatizzazione» dell'urbanistica. Così negli anni del boom economico il tentativo di Fiorentino Sullo di riformare l'urbanistica italiana viene "sventato" dai signori del mattone: subito dopo la frana che nel 1966 distrusse Agrigento, «causata dalla costruzione di 8500 vani in contrasto con le norme», l'allora ministro dei Lavori pubblici del governo democristiano tentò di "condizionare" la speculazione fondiaria concedendo agli enti locali il diritto di esproprio preventivo di tutte le aree fabbricabili incluse nei piani regolatori. Aldo Moro bollò la riforma Sullo, su pressione dei proprietari terrieri e dei "signori del mattone", come un'iniziativa personale del ministro. In pochi mesi, il tutto venne chiuso a doppia mandata in un cassetto. E, per chiudere il cerchio, nel 1974 i sindaci, tecnici comunali e del genio civile rinviati a giudizio per la frana di Agrigento, difesi strenuamente dal sistema politico in generale e dalla Dc in particolare, vennero assolti in blocco per non aver commesso il fatto. Da questo momento in poi, gli unici interventi urbanistici sono i condoni edilizi. Dal primo firmato Craxi nel 1985, pochi mesi prima l'approvazione della legge Galasso sulla tutela del paesaggio italiano, a quello del 1994 che porta la firma di Silvio Berlusconi. «Anche allora - scrive Berdini - come nel 1985 si disse che sarebbe stato l'ultimo». Ultimo fino al 2003, quando la stessa maggioranza, rieletta, approvò il terzo condono edilizio della storia italiana. Quale sia il bilancio economico di queste tre leggi, però, non è dato saperlo: mai è stato presentato un rendiconto. Non un dato su quanti edifici siano stati condonati. Nessuno sa quanti ettari di terreno agricolo sono stati edificati. Non potendo procedere al quarto condono edilizio, il terzo sotto suo mandato, l'attuale governo Berlusconi si è così inventato il famoso Piano casa. Un piano con cui si possono aumentare i volumi degli edifici «a prescindere» ovviamente «da qualsiasi regola urbanistica». Un piano perfettamente in linea con un paese che sta allevando, nel suo grembo, cricche d'affari e lobbies più o meno lecite. Per questo, accanto al ricordo della frana di Sarno, alla denuncia della cementificazione di zone teoricamente da tutelare come il Vesuvio, allo smascheramento di progetti inutili e devastanti come il Ponte sullo stretto, il professor Berdini, per narrare novanta anni di abusi edilizi non manca di raccontare degli ultimi scandali. Lo fa in un capitolo dal titolo inequivocabile: "Il trionfo del paese fai da te". Un paese senza Stato: la legge di riforma urbanistica partorita dall'on. Maurizio Lupi, ex assessore di Milano, equipara il pubblico al privato, soprattutto come interesse da tutelare. Sono infatti il pubblico e il privato, secondo questa legge, a redigere insieme i piani urbanistici, «attraverso atti concertati e non autoritativi». È questo il capolavoro del lasseiz faire berlusconiano. Ma, d'altra parte, è questo il paese in cui alle case pubbliche «che continuano a mancare» si risponde con «l'emergenza come sistema». Un sistema che permette a lorsignori, come il caso dell'ex ministro Claudio Scajola, di essere «sempre più padroni in casa nostra».
Liberazione 21/10/2010, pag 9
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