Una presidenza di trasformazione radicale. Unico neo, la mancata riforma agraria
Gennaro Carotenuto*
Sembra incredibile, guardando dall'Italia, ma la cifra della politica brasiliana nel 2010 è l'egemonia culturale e politica della sinistra. I tre candidati alla successione di Lula da Silva fanno infatti a gara a chi si definisce più di sinistra. Dilma Rousseff, la favorita, è del Partito dei lavoratori (Pt), il moderato José Serra ostenta un pedigree radicale per il suo partito socialdemocratico (Psdb) e l'outsider Marina Silva mette nel motore del suo Psol le parole Verde, Socialismo e Libertà.
Essere di destra è fuori moda in Brasile. Chi lo è evita di dirlo, la campagna di Serra ne è un esempio, già che destra in Brasile vuol dire clientelismo, autoritarismo e privatizzazioni. Al contrario è ragionevole dire che non tutto quello che si dichiara di sinistra lo sia in una sorta di esplosione semantica che contagia anche il centro politico.
Per quanto schematico ciò possa apparire, la visione della storia del Brasile dal ristabilimento della democrazia, nel 1985, dopo 21 anni di dittatura militare, appare scandita temporalmente in tre parti equivalenti: la palude, simboleggiata da Fernando Collor de Mello; il neoliberismo reale, impersonato da Fernando Henrique Cardoso; la rinascita, incarnata da Luiz Inácio Lula da Silva.
Se nei primi due terzi del tempo trascorso dal ristabilimento della democrazia il Brasile ha moltiplicato le ingiustizie (con Cardoso il 30% della ricchezza del paese è stata privatizzata e passata nelle mani di ricchi e multinazionali straniere), la presidenza Lula è una inversione di rotta che oggi fa dire a Lula stesso che «se avessi seguito il cammino di Fernando Henrique oggi il paese sarebbe al fallimento».
Non è infatti con il solo carisma personale di Lula, la sua storia di pauperrimo nordestino divenuto operaio a San Paolo e fattosi cristallino militante contro la dittatura prima di iniziare la lunga marcia verso il palazzo di Planalto e la presidenza, che in otto anni 30 milioni di brasiliani sono usciti dalla povertà e sono transitati nella classe media.
Nonostante la promessa riforma agraria abbia segnato il passo, così come la difesa dell'ambiente (che ha dato spazio alla candidatura della Silva), il governo di sinistra ha infatti rappresentato un vero cambio di egemonia all'interno del modello capitalista, smantellando tutti i paradigmi neoliberali, dagli aggiustamenti strutturali alle privatizzazioni, dalla riduzione del ruolo dello stato alla supinità al Fondo Monetario Internazionale e al governo degli Stati Uniti.
Se Cardoso aveva optato per gli aggiustamenti fiscali e il controllo dell'inflazione, Lula ha puntato sulla crescita economica e la redistribuzione della ricchezza. Se Cardoso aveva puntato alla riduzione della spesa pubblica, con Lula 50 milioni di brasiliani hanno ottenuto con la Borsa familia un aiuto minimo ma decisivo per rendere più dignitose le loro vite e dare un'opportunità ai loro figli. Dove il suo predecessore aveva puntato su di un'economia funzionale a quella statunitense, Lula, facendo fronte comune con Nestor Kirchner e Hugo Chávez, ha puntato tutto sull'integrazione latinoamericana.
Sono i passaggi decisivi: a metà 2005 Lula, forte del pieno sostegno tanto dell'imprenditoria brasiliana come dei movimenti sociali, affonda George Bush e l'Alca, l'Area di Libero Commercio delle Americhe. Ma è a gennaio 2006 la svolta. Nel giro di 24 ore, in maniera concertata, sia Argentina che Brasile chiusero i loro conti con il Fondo Monetario Internazionale, saldando tutti i debiti con questo organismo. «Non abbiamo più bisogno dei vostri consigli interessati» dissero sia Lula che Kirchner mettendo fine a quasi mezzo secolo di "sovranità limitata".
Come anche gli eventi ecuadoriani di giovedì hanno dimostrato il Brasile di Lula è oggi un elemento di stabilità, diminuendo radicalmente le possibilità di intervento militare statunitense nella regione. Offre infatti un riferimento chiaro ai governi progressisti nella regione, un polo di autonomia diplomatica, commerciale, tecnologica e scientifica rispetto agli Stati Uniti. In particolare durante il primo mandato di Lula, il Brasile ha avuto un ruolo decisivo nell'impedire la regionalizzazione del conflitto colombiano e impedire l'aggressione militare contro il Venezuela da parte degli Stati Uniti dopo il fallimento del golpe dell'11 aprile 2002.
Allo stesso modo il Brasile di Lula non ha mai smesso di stare al fianco della Rivoluzione cubana, con la quale ha stabilito le migliori relazioni della storia dei due paesi. Lula non ha mai avuto paura di mostrarsi insieme a Fidel Castro. Tutto ciò è valso l'inserimento del paese nella lista de "l'asse del male latinoamericano da colpire" compilata da Donald Rumsfeld, allora segretario alla difesa di George Bush figlio. In campo militare, se il Brasile volesse, potrebbe diventare una potenza nucleare senza chieder nulla a nessuno. Non lo vuole e l'America latina resta l'unico continente denuclearizzato al mondo.
Così non è un caso che se nei 17 anni dal 1985 al 2002 la povertà non aveva fatto che aumentare, da quando Lula è presidente questa si è sostanzialmente dimezzata passando da quasi il 40 a poco più del 20% della popolazione. Oggi che Lula passa la mano a Dilma, il Brasile vola e solo negli ultimi nove mesi ha creato un milione di posti di lavoro, superando di slancio la crisi neoliberale globale. Lo ha fatto redistribuendo e mettendo in gioco quelle forze sociali condannate all'inanità dal neoliberismo senza mai smettere di crescere (40% in otto anni, il doppio dell'ortodosso neoliberale Cardoso con le banche che con Lula guadagnano il sestuplo che col suo predecessore) anche in termini di Pil.
Potremmo proseguire a lungo in questa disamina di otto anni di sinistra al governo ma la sostanza è una sola: i brasiliani non hanno alcun motivo di cambiare e perciò eleggeranno Dilma Rousseff, nella continuità assoluta con Lula. Anche per i contadini senza terra, Mst, spesso critici da sinistra e che non hanno incassato che marginalmente quella riforma agraria che speravano «il governo di Dilma significherà un ulteriore avanzamento di conquiste sociali». All'interno continueranno a discutere, soprattutto monetaristi e sviluppisti, ma ciò non impedirà al paese di continuare nella sua strada. La "grande nazione progressista", così è stato definito il Brasile perfino dal quotidiano conservatore argentino La Nación, è una realtà.
*insegna Storia dell'America latina presso l'Università di Macerata
Liberazione 03/10/2010, pag 2
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