mercoledì 27 ottobre 2010

Il film del capitalismo Un incubo di celluloide

Da Charlie Chaplin a Michael Moore, vita morte e miracoli del Dio denaro

Nicola Melloni
Come qualsiasi forma artistica, il cinema è stato spesso specchio fedele dei tempi, proponendo non solo pellicole di puro intrattenimento ma anche analisi del reale e descrizione della società. In qualche maniera, quindi, la storia del cinema è anche, certo, non solo, la storia del capitalismo del novecento. Inevitabilmente, la prima immagine che ci viene in mente è un magnifico Charlie Chaplin con la faccia sporca incastrato tra le ruote delle macchine. Era l'epoca delle grandi fabbriche, del nuovo che avanza, dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione, in breve erano Tempi Moderni. La fabbrica era il mito di progresso che si portava però dietro tanti problemi e tanti dubbi sul futuro, il capitale voleva trasformare i lavoratori in macchine e Chaplin diede una magnifica rappresentazione delle contraddizioni e delle paure che quell'epoca di grandi cambiamenti si portava dietro. Intanto, in altre parti del mondo il conflitto capitale-lavoro divampava, le lotte diventavano più aspre e più ampie, la classe operaia si organizzava in partiti e sindacati e nelle fabbriche risuova un grido di lotta e di speranza: Sciopero!, come il titolo del film di Sergei Eijzenstein. Un film di propaganda ma anche di grande realismo, un film, naturalmente, dalla parte dei lavoratori, usato come immagine della repubblica dei Soviet e come ispirazione per i movimenti socialisti che andavano crescendo nei quattro angoli del mondo.
Un filone cinematografico, quello della rappresentazione del lavoro, delle sue speranze e delle sue lotte, che prenderà ancora più forza dopo la seconda guerra mondiale, il neo-realismo e l'avanzata impetuosa della sinistra. Anche negli Stati Uniti il cinema diventa una roccaforte progressista, in grado di descrivere ed anticipare i cambiamenti sociali e di denunciarne le contraddizioni. Il Fronte del porto narra le lotte dei lavoratori americani, dove una classe operaia disorganizzata è spesso vittima del capitale e del racket che cerca di dividere e sabotare il movimento dei lavoratori. Ne emerge una figura tragica ma eroica del protagonista che attraverso un percorso di maturazione umana e civica abbandona la vita precente pure al costo dell'emarginazione sociale. Negli stessi anni l'Italia del neorealismo ci mostra un'immagine ben diversa, si parla di un paese arretrato in cui le relazioni di produzione sono ancora pre-moderne, la miseria contadina è il tratto caratterizzante dell'economia e della società italiana. Non ci sono eroi e modelli da imitare in film come Riso amaro, quanto piuttosto una critica spietata della povertà, dramma collettivo e privato allo stesso tempo. Un tema che si ripete anche quando il panorama si sposta dalle campagne alle fabbriche. La classe operaia va in paradiso ma di certo non lo trova sulla terra, costretta al lavoro a cottimo, al crumiraggio e al servilismo in cambio di modesti miglioramenti economici. Il tema dominante della filmografia impegnata è l'impossibilità di realizzarsi come persona singola e solo lo sviluppo di una vera coscienza di classe può portare ad un vero cambiamento. D'altronde sono gli anni delle grandi lotte sociali e sindacali, gli anni in cui cambiare il mondo non sembra solo un'utopia, magnificamente rappresentati da Monicelli ne I Compagni che pur raccontando la storia di uno sciopero di fine Ottocento in realtà mostra l'emergere del lavoro come alternativa politica in un paese però ancora drammaticamente attraversato da contraddizioni e mancato sviluppo come quello rappresentato da Francesco Rosi ne Le mani sulla città, fedele descrizione del capitalismo arretrato del Mezzogiorno italiano dedito alla speculazione e che rifugge la modernizzazione .
Le cose cambiano drasticamente con il decennio reaganiano ed il rilancio del mito del self-made man.
Ora il successo è personale e alla portata di tutti, mentre nuove categorie sociali iniziano ad affermarsi a cominciare da quella del banker/trader fino ad allora rappresentato come un grigio ed anonimo cinquantenne con una bombetta in testa ed un ombrello nero al braccio (indimenticabile, in questo caso, è un film come Mary Poppins dove i finanzieri sono dei vecchiacci rapaci, senza amore, senza umanità). La finanza crea la moneta facile che è il nuovo sogno alla portata di tutti. Da una parte il finanziere senza scrupoli di Wall Street dall'altra quello umano ed innamorato di Pretty Woman. In mezzo una commedia che dice molto sull'America degli anni Ottanta come Una poltrona per due dove il grande capitale rappresenta il male assoluto ma non è contrapposto al blue collar bensì al dirigente in un ambiente in cui le fortune non si fanno ormai più producendo merci ma speculando in borsa. E' il nuovo capitalismo e la nuova organizzazione aziendale che avanza, le grandi famiglie sono soppiantate dal management e tutti possono avere una possibilità, anche il nero Eddie Murphy che viene dalla strada e non dalla buona borghesia. Una nuova era anche di relazioni sociali che si basa su una forte critica del moralismo puritano e conservatore caraterrizante il vecchio capitalismo industriale. Non a caso sono due prostitute, sia in "Pretty Woman" che in una "Poltrona per due" ad emergere come simbolo di un nuovo ordine economico basato sulla mobilità sociale e sul riscatto individuale e non di classe.
Un modello rilanciato da un altro film di grande successo di quegli anni, Una donna in carriera che ripropone il sogno del successo personale in una società dove tutto è possibile perchè il nuovo capitalismo offre una chance a tutti. La modernizazzione neo-liberista ignora le fabbriche e così in maggior parte fanno i film di Hollywood che si concentrano invece sugli yuppies - i giovani rampanti della borghesia cittadina, belli e ricchi - che rappresentano la nuova versione del sogno americano, spesso spietatamente descritti dalla filmografia (come Il falò delle Vanità) sempre però rimanendo nell'ambito etico/morale e senza avanzare una critica sociale più avanzata confinata quasi solamente a film di nicchia come Il signore del male in cui all'interno di un film horror viene però proposta un'analisi della povertà e della segregazione di classe a Los Angeles. La figura dello yuppie presto varca l'oceano assumendo però nel nostro paese una caraterizzazione positiva. E' il modello berlusconiano che getta le sue basi: mentre il giovane di buona famiglia ma vitellone e scansafatiche era stato nel passato l'anti-eroe per eccellenza (si pensi a Gassman del Sorpasso) ora diventa il modello invidiato proposto dalla filmografia di massa degli Anni Ottanta.
Altrove però la ristrutturazione economica ha dei costi sociali altissimi che non vengono ignorati dal cinema e questo accade soprattutto in Gran Bretagna dove le pellicole di denuncia sociale abbondano. Soprattutto, naturalmente, Ken Loach che con Riff Raff, Piovono Pietre e My Name is Joe rappresenta l'impoverimento della classe operaia inglese sconfitta dalla Thatcher. Tema ricorrente in altri film, dal leggero ma al contempo riflessivo Full Monty in cui un gruppo di operai senza lavoro è costretto a riciclarsi in spogliarellisti per sbarcare il lunario, al musicale Grazie Signora Thatcher che mostra i momenti duri delle chiusure delle miniere, delle lotte e delle sconfitte operaie e che si chiude con un discorso durissimo contro il liberismo (..altri mille uomini hanno perso il loro posto di lavoro, e non è tutto quello che hanno perso, molti di loro hanno perso la voglia di vincere, la voglia di combattere, ma anche la voglia di vivere.. ) che difficilmente si potrebbe sentire nelle aule parlamentari. Ad Hollywood, intanto, inizia il filone che denuncia lo strapotere delle corporations, ormai soggetto impersonale (come già lo erano le banche di Steinbeck negli anni 30), tant'è che il conflitto sociale si sposta dalla fabbrica e dalla piazza alle aule di tribunale come in Erin Bronkovich ed in A civil Action. La commercializzazione culturale rende però questi casi sempre più delle eccezioni. Il film "blockbuster" monopolizza sale cinematrografiche trasformate in catene aziendali e con accesso al grande capitale mentre le proposte di riflessione si riduscono sempre di più. Il prodotto culturale diventa legato semplicemente alla sua capacità di generare profitto e la nuova crisi finanziaria offre l'occasione ai governi come quello italiano di tagliare anche le già misere risorse per il cinema d'autore, proprio mentre cambiamenti epocali avvengono davanti ai nostri occhi ma che, nonostante ciò, non si devono far vedere. Il cinema rischia così di perdere la sua capacità di raccontare il mondo, le sue tragedie, le sue lotte, le sue speranze ed i suoi cambiamenti, marginalizzato tra un piccolo schermo ormai sub-affittato a reality, dottori e poliziotti e un'industria cinematografica sempre più tendente al disimpegno culturale. Proprio il mondo visionariamente descritto in Essi vivono di John Carpenter, un mondo in cui i lavoratori sono ipnotizzati da immagini subliminali e costretti a vivere conformisticamente seguendo la morale dominante. Un finale da horror.

Liberazione 22/10/2010, pag 6

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