mercoledì 27 ottobre 2010

«Sono un redneck e vi racconto cosa c'è nella pancia dell'America»

Joe Bageant Giornalista e scrittore americano cresciuto a Winchester in Virginia
autore di "La Bibbia e il fucile. Cronache dall'America profonda"

Guido Caldiron
«L'America è una sorta di grande teatro, dove tutto ruota intorno alle illusioni dei più deboli e alle rappresentazioni distorte e interessate della realtà che vengono offerte loro da chi intende manipolarli per i propri fini politici».
Nato nel 1946 a Winchester, in Virginia, Joe Bageant si definisce con orgoglio "un redneck", il termine dispregiativo utilizzato negli Stati Uniti per designare soprattutto i campagnoli un po' zotici del Sud, ma che i poveri bianchi sudisti rivendicano come una sorta di segno identitario. "Redneck", letteralmente "collorosso", vale a dire più o meno contadino, è per i proletari bianchi delle aree rurali del paese quasi un sinonimo di gran lavoratore, gente tutta d'un pezzo che si spacca la schiena per tutto il giorno, la sera si gode una buona birra con gli amici e la domenica si ritrova nelle chiese del fondamentalismo battista. Un'«America - spiega Bageant - che lavora, suda, beve e prega» e che, per quanto paradossale possa apparire, non potrebbe essere più lontana dalla cultura progressista, quella che si prefigge di parlare soprattutto proprio al mondo della working class.
«Il proletario americano, l'uomo che lavora usando le mani e il corpo, fabbrica cose o le rimette in funzione, vive in una nazione a parte, popolata da una tribù a parte. - sottolinea ancora Bageant - Vive in un mondo parallelo e misconosciuto rispetto a quello dei progressisti colti di città. I liberal non riescono a vedere o ascoltare il suo mondo che marcia e caracolla rumorosamente al passo con la sua realtà».
Joe Bageant ha combattuto in Vietnam, ha vissuto in una comunità hippy, è diventato marxista e buddhista, ha girato il mondo scrivendo reportage e anima da diversi anni un sito molto frequentato, www.joebageant.com. Poi, un bel giorno, ha deciso di tornare a Winchester, da dove era partito oltre trent'anni prima, per raccontare la vita di quelli che non se ne sono mai andati e per indagare l'apparente paradosso di una parte della società americana che sembra votare contro i propri interessi materiali e che ha fatto fino ad ora le fortune della destra religiosa e del Partito repubblicano. Il frutto di questo lavoro, pubblicato nel 2007 negli Usa con il titolo di Deer Hunting With Jesus, è oggi proposto ai lettori italiani da Bruno Mondadori: La Bibbia e il fucile. Cronache dall'America profonda (pp. 240, euro 18,00).
Bageant, che solo pochi mesi fa ha pubblicato un nuovo capitolo di questa sua ricerca, Rainbow Pie: A Redneck Memoir (Scribe Publications), traccia il profilo di quell'America profonda, fatta di lavoratori manuali che a malapena hanno un diploma di scuola superiore e non leggono libri, si dichiarano conservatori fanatici, patrioti e cristiani "intransigenti". Con grande ironia e un timbro decisamente narrativo, il giornalista descrive l'orizzonte di un mondo in cui alcol, Gesù, cibo e caccia sono le scappatoie predilette a una vita fatta soprattutto di lavoro.
Alla vigilia delle elezioni di midterm abbiamo cercato di capire con Bageant dove batte il cuore dell'heartland degli Usa.

Lei spiega che i redneck "non votano per qualcosa, ma votano contro qualcosa". Contro chi vota il cuore dell'America profonda?
La gente che viene dall'heartland degli Stati Uniti vota contro tutto ciò che secondo loro - o perché qualcuno li ha convinti che è così - rappresenta una possibile minaccia per l'ordine sociale o i principi a cui sono abituati e con cui sono cresciuti. Sono persone che hanno sempre bisogno di avere un "nemico", qualcuno o qualcosa contro cui schierarsi: un tempo potevano essere il comunismo o gli hippie, oggi sono i matrimoni omosessuali o i diritti dei gay in generale. Però il punto centrale è un altro. Uno dei grandi principi degli americani è il "far da sé", il cavarsela da soli senza dover chiedere niente a nessuno: essere indipendenti e far fronte alla vita con le proprie forze. Questo è un atteggiamento davvero caratteristico dell'americano medio, specie se viene dalla provincia. Da questo modo di pensare deriva l'atteggiamento di molti dei miei concittadini nei confronti di quello che d'abitudine si chiama "stato sociale": non me ne frega niente che il governo di Washington mi possa dare, chessò, l'assistenza sanitaria pubblica. Tra queste persone non ha mai preso piede l'idea che lo Stato centrale potesse in qualche aiutare o sostenere i propri cittadini con programmi assistenziali di qualunque sorta. Ogni cosa che sembri anche solo superficialmente scuotere o modificare la loro idea dell'America, il modo in cui credono che debba vivere un "vero americano", è considerata sbagliata e pericolosa, e viene perciò osteggiata in modo molto fermo. Inoltre, almeno per quanto riguarda il campo della sanità, si deve tenere conto del fatto che fino a qualche decennio fa le assicurazioni mediche private non costavano un occhio della testa, come accade invece oggi. Ricordo che me la potevo permettere perfino io, tirando fuori poco meno di due dollari alla settimana.

Nel suo libro lei spiega come i liberal delle grandi città non capiscono, quando non snobbano apertamente, questa parte d'America. In che modo la destra ne coltiva invece il consenso?
Nella storia della politica americana i repubblicani hanno sempre incarnato un atteggiamento "duro", sono sempre stati incazzati e aggressivi, "contro" qualcosa. I democratici, al contrario, hanno sempre avuto un atteggiamento inclusivo, "a favore" di qualcosa. Gli attivisti del Partito democratico si facevano spaccare il naso insieme agli operai per difendere i loro diritti sindacali con i picchetti. Ma ora tutto questo è finito anche sul fronte dei democratici che si sono sempre più allontanati dalla loro tradizionale base sociale. Così, da alcuni decenni, per i lavoratori dell'America profonda è più facile credere alla propaganda repubblicana che agita paure e fantasmi. Un esempio? Per sostenere la campagna contro la Riforma sanitaria di Obama, il Partito repubblicano ha raccontato che Washington avrebbe dato il via a un programma di eutanasia dei malati più gravi e dei vecchietti che si trovano negli ospedali per tagliare la spesa pubblica e indirizzarla a sostenere la nuova assicurazione sanitaria pubblica».

Le pagine di "La bibbia e il fucile" sembrano accompagnate da un paradosso. L'american dream più celebrato racconta di persone che possono arrivare laddove le loro ambizioni e le loro capacità sono in grado di portarli. Il suo libro fotografa invece una realtà sostanzialmente immutata e immutabile, nel senso che la definizione di "redneck" ha più a che fare con l'antropologia che con la sociologia: si nasce tra la working class bianca e si resta legati a questa sorta di identità profonda qualunque cosa si finisca per fare della propria vita. Quale delle due immagini è fittizia?
L'idea che negli Stati Uniti ci sia sempre stata la possibilità di una forte mobilità sociale verso l'alto riguarda e ha riguardato soprattutto gli immigrati. Per coloro che sono passati attraverso Ellis Island questo discorso può effettivamente valere, visto che spesso le condizioni di partenza erano davvero molto povere e deboli. Altra cosa riguarda invece "gli americani": la mia famiglia vive ancora oggi nello stesso posto di più 270 anni fa e ogni figlio maschio ha sempre desiderato di essere come suo padre, nessuno ha mai pensato di dover migliorare la propria condizione sociale, se c'era di che vivere, andava bene così. Ovviamente non parlo di tutta l'America, ma di quella sua parte agricola, del mondo rurale, fatto di fattorie e di piccoli centri che è perfino difficile definire "città". In luoghi del genere, nel posto in cui sono cresciuto io, nessuno ha mai desiderato essere o diventare qualcosa di diverso da ciò che già conosceva, da ciò che erano stati prima di lui suo padre o suo nonno. Voglio fare un esempio che può apparire a prima vista contraddittorio, ma che illustra chiaramente cosa sto dicendo. Mio padre faceva il meccanico, non poteva certo essere definito ricco, ma per il semplice fatto di aver messo sù un'attività tutta sua e di essere uscito dalla fattoria di mio nonno provava un certo orgoglio. Il suo lavoro non lo aveva però reso "altro" rispetto alla sua famiglia, smentendo in questo la retorica della scalata sociale spesso celebrata nel paese. Piuttosto, in questa parte d'America, ciò che veramente ha sempre contato molto per le persone è il fatto di non lavorare sotto padrone, di coltivare i propri campi, allevare le proprie bestie o, magari, inventarsi una piccola attività in proprio: in ogni caso non dover baciare il culo a nessun datore di lavoro. Per questo motivo perlomeno fino agli anni Trenta era più facile che la manodopera dell'industria venisse reclutata tra gli immigrati appena arrivati dall'Europa, sia perché le fabbriche si trovavano nei centri urbani sia perché gli americani provenienti dalle zone rurarli non avevano alcuna fretta di finire sotto padrone e nelle catene di montaggio. Il tipico redneck alla proposta di un lavoro on fabbrica avrebbe infatti risposto: «Ma vaffanculo, non ho alcuna intenzione di diventare uno "schiavo bianco"». Il mito dell'ascesa sociale appartiene al mondo urbano, alle città, non è che non si sia fatto sentire nelle campagne, tra l'altro me ne sono occupato proprio quest'anno nel mio nuovo libro Rainbow Pie: A Redneck Memoir, ma, in queste zone, ha avuto sempre un ruolo meno rilevante.

Nelle campagne del Sud i più poveri temevano di poter diventare degli "schiavi bianchi", vale a dire simili ai neri. Quanto ha pesato nella storia sociale americana il fattore della razza? Alcuni studiosi hanno spiegato che perfino l'assenza di un vero e proprio sistema di welfare negli Stati Uniti si spiegherebbe con il timore da parte dei poveri bianchi che l'assistenza fosse estesa anche agli afroamericani, cose pensa di questa lettura delle cose?
Partiamo da un chiarimento. In realtà, prima di oggi, non era quasi mai accaduto che si proponesse agli americani una qualche forma di assistenza sanitaria pubblica. C'era stato qualche segnale, ma nulla di concreto. Ciò detto, se anche gliela avessero offerta, probabilmente una buona parte dei bianchi del Sud l'avrebbero rifiutata ma non tanto per motivi "razziali", ma perché da buoni discendenti degli scoto-irlandesi e dei tedeschi, si portano ancora dentro un rifiuto dell'autorità totale, un individualismo e un rifiuto del ruolo dello Stato che niente e nessuno sono mai riusciti a mettere davvero in discussione. Più che i neri, sottomessi fin dal tempo della schivitù, queste persone temono e hanno sempre temuto ciò che definiscono come "Big government": istituzioni che entrino nelle loro case e nelle loro vite. Questo non significa che il razzismo non abbia giocato una parte imortante in questa storia. Io sono nato nel 1946 e sono cresciuto in un'era di grande razzismo, quando ero bambino c'erano ancora le aree separate per i neri nei cinema, nei teatri, nei ristoranti. Ma, in quell'epoca, anche i poveri bianchi non potevano nemmeno avvicinarsi a certi locali e, chessò, entrare in un negozio per provarsi un paio di scarpe. Dico questo per spiegare come il razzismo fosse solo una delle facce, anche se certo la più grave e terribile, assunte dalle discriminazioni soprattutto nell'America rurale. Comunque, se il governo federale non avesse detto "stop" a tutto questo alla fine degli anni Sessanta, imponendo nei fatti le leggi contro la segregazione dei neri, non so come sarebbero andate le cose. Le discriminazioni sono finite, o perlomeno quelle più evidenti, ma l'odio non credo sia mai scomparso del tutto. Del resto il razzismo nel Sud degli Stati Uniti ha radici profonde: è stato alimentato per molto tempo dai bianchi ricchi, in particolare dai proprietari delle piantagioni che avevano tutto l'interesse a dividere i poveri tra bianchi e neri per poterli mettere poi gli uni contro gli altri, in modo da poter meglio controllare la società. La generazione di mio padre è quella dei linciaggi, ma poi le cose sono cominciate a cambiare, c'è stato anche un periodo in cui tutti volevamo essere Otis Redding, diventare dei "soul brothers". E oggi la generazione dei miei figli affronta le cose in modo del tutto diverso: perfino mio fratello che potrebbe essere definito come un predicatore fondamentalista, ha dei nipotini un po' bianchi e un po' neri.

Liberazione 24/10/2010, pag 14

Nessun commento: