Simone Pieranni e Mauro Crocenzi
Brand Tibet
La causa tibetana e il suo marketing in Occidente
pagg. 96
€10
€978-88-89969-76-2
Il libro
In Occidente, la causa della difesa del Tibet ha riscosso un enorme successo. Anche in Italia abbiamo visto prese di posizione, il sostegno pubblico da parte di noti personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport, ma non solo. Manifestazioni di solidarietà al popolo tibetano, spesso in chiave anticinese e tante bandiere del Tibet appese alle finestre delle case. Il fenomeno del «Free Tibet» si inserisce in una realtà occidentale in cui spesso non è presente una conoscenza precisa dei fatti storici. Questo piccolo volume cerca di rispondere a due domande: perché il Tibet ha riscosso così tanto successo all’interno delle dinamiche sociali e comunicative occidentali in genere e italiane nello specifico? Quali sono le dinamiche dei rapporti tra cinesi e tibetani nel corso della storia? Dall’antichità all’imperialismo occidentale, dal comunismo ai giorni nostri: i rapporti tra Cina e Tibet dimostrano quanto la storia sia stata più complessa rispetto a quello che sostengono alcune prese di posizione di stampo più calcistico che intellettuale, specie se analizziamo tali rapporti attraverso, e non solo, fonti cinesi, mai prese in considerazione nelle pubblicazioni occidentali a riguardo. Brand Tibet è un tentativo di presentare in modo oggettivo i fatti storici, analizzando la peculiarità, tutta occidentale, del fenomeno mediatico filo-tibetano. Perché la campagna di cui siamo testimoni negli ultimi anni assomiglia sempre di più a un modello di marketing.
Simone Pieranni e Mauro Crocenzi
Simone Pieranni collabora dalla Cina, con «Il manifesto», «Liberazione», «Metro», attraverso l’agenzia di stampa China Files di cui è direttore editoriale. Vive in Cina da due anni.
Mauro Crocenzi è specializzato in storia contemporanea del Tibet, vive a Pechino dal 2006. Ha collaborato con la «Tibetan Review» e collabora sui temi tibetani e tradizionali cinesi con China Files.
un assaggio...
Oggi come tutti i brand, le marche, le mode e i miti di successo, il Tibet funziona grazie a una concentrazione di fattori, la cui progressione è ormai difficilmente distinguibile dai suoi effetti visibili, come se la matassa si fosse ormai inestricabilmente complicata, rendendo impossibile una distinzione netta tra gli elementi che hanno portato all’attuale situazione. In primo luogo il Tibet, in quanto brand occidentale, ha ottenuto quello che gli esperti di marketing chiamano endorsment, ovvero la capacità di diffusione di un messaggio (pubblicitario, di solito), grazie all’intervento di un testimonial, o più testimonial, in grado di rappresentare appieno il prodotto nei confronti dei consumatori.
Il Tibet, agli occhi dei consumatori occidentali, anche politici e sociali, ha un leader, il Dalai Lama, in grado di fare breccia e sfruttare le ondate di new age e buddhismo che imperversano da tempo in Europa (e ancora di più negli Stati Uniti). Inoltre, il Tibet attraverso i suoi testimonial peculiari, noti e stranoti, sviluppa un immaginario altro, in grado di calamitare i reconditi desideri e auspici di vita pacifica e in armonia con la natura, con una visione trasognata dei tempi che furono sull’altopiano tibetano. La causa tibetana, inoltre, permette di porre in atto un impegno sociale molto adatto ai tempi che corrono: distante dal luogo geografico in cui si svolgono i fatti, è facilmente catalogabile all’interno di un variegato e trasversale partito della maggioranza, che unisce intellettuali a sportivi, tassisti romani a star di Hollywood, artisti a militanti di sinistra e di destra. Nel Tibet e la sua causa è racchiusa la possibilità di un impegno civile senza troppe ricadute sulla propria vita quotidiana: basta una bandiera alla finestra, una maglietta, una giacca o una sparata dialettica sui media. O un regalo da parte di campioni sportivi italiani che hanno partecipato alle Olimpiadi: silenti in Cina, ma bramosi di dare solidarietà al Dalai Lama una volta messo il piede giù dall’aereo che li ha riportati a Roma.
Analogo è il comportamento dei governi, nonostante i proclami. Il Dalai Lama spesso non viene neanche invitato ufficialmente dai primi ministri per il timore di una reazione nervosa da parte dei cinesi. Eppure la sua causa spesso sembra l’unica per cui valga la pena combattere.
Infine, come tutti i brand, anche quello tibetano veicola un sentimento sociale diffuso, in alternativa a un altro modello di vita. In questo caso si tratta di appoggiare il Tibet anche in chiave anti-cinese. In Italia, in particolar modo dopo l’allarme lanciato da alcune forze politiche, pare che l’economia nazionale, e le sue disgrazie, ruotino completamente intorno alla presenza dei cinesi o alla grande competitività del mercato del lavoro cinese.
Ne consegue un’osservazione piuttosto semplice: il Tibet funziona perché raccoglie intorno a sé alcuni cardini concettuali che fanno presa tra la massa, unendo stili di vita, impegno, accettazione sociale e derive razziste di bassa lega (non per tutti i supporters del Free Tibet, naturalmente) ma comunque funzionanti come collante collettivo variegato.
Monaci, pacifismo – presunto o vero che sia – idillio naturalistico, successo della religione buddhista e sentimento anti-cinese più o meno sviluppato ed esacerbato da continui articoli di giornali volti a porre in cattiva luce i pericolosi cinesi: il regime pechinese, la concorrenza sleale dei tanti cinesi in Italia – specie nei confronti del super brand del made in Italy, quando poi esperimenti per propagarlo nel mondo sprofondano miseramente proprio in Cina, come nel caso della mastodontica Piazza Italia a Pechino, fallita sotto valanghe di debiti – sono solo due esempi tra i più utilizzati per aizzare i sentimenti anti-Pechino che confluiscono, infine, nel calderone dei filo tibetani.
http://www.deriveapprodi.org/estesa.php?id=374
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