giovedì 7 ottobre 2010

Senza scrittori, le dinamiche perverse dell'industria del libro

Un mondo condizionato dai grandi editori e dal mercato. La denuncia in un video di Andrea Cortellessa e Luca Archibugi

Sergio Garufi
Sgombriamo subito il campo da un equivoco sul quale si è marciato parecchio, soprattutto da parte di chi non lo ha ancora visto. Senza scrittori, il titolo del pregevole video-documentario di Rai Cinema, scritto e condotto da Andrea Cortellessa per la regia di Luca Archibugi, non preannuncia la solita mesta trenodia postmoderna sull'assenza di autori validi nel nostro attuale panorama letterario. Sarebbe stato perlomeno curioso, dato che il primo, nella sua duplice veste di critico e direttore di collana, in questi anni ne ha segnalati molti alla pubblica attenzione. Si tratta invece di un'accorata denuncia sui pesanti condizionamenti esercitati nei confronti degli scrittori da parte dell'industria dell'intrattenimento, tramite l'enorme potere delle concentrazioni editoriali e i meccanismi truffaldini della promozione mediatica che formatta stili, generi e perfino grafiche di copertina. L'inchiesta è a tesi, sulla scorta delle analisi delle strutture economiche che reggono il sistema editoriale avanzate da André Schiffrin, e procede con la descrizione della cosiddetta filiera (produzione, distribuzione, vendita), percorrendo le varie stazioni della via crucis che un libro deve compiere per giungere nelle mani del common reader, l'unico in grado di decretarne il successo commerciale. Si parte con un'incursione alla Michael Moore nel Ninfeo di Villa Giulia, in occasione dell'assegnazione del Premio Strega, l'annuale rito che commina il castigo della consacrazione. Qui, con l'eccezione dell'accondiscendente Francesco Piccolo e in mezzo alla più tronfia mondanità, Tiziano Scarpa, Antonio Scurati, Giorgio Vasta e Valentino Zaichen dichiarano la loro sostanziale estraneità a quel fatuo modello di società letteraria. Da Roma Cortellessa si sposta a Milano e incalza Stefano Salis, il pragmatico giornalista responsabile dell'inserto culturale de Il Sole 24 Ore, che afferma di non ignorare le pressioni ma nemmeno i gusti del pubblico, cercando di contemperarli con quelli più esigenti. In seguito registra il commento sfiduciato del critico Marco Belpoliti, si aggira fra gli scaffali della Fnac milanese, segnala la meritoria iniziativa della Coop, che di recente ha stipulato un accordo per ospitare nei suoi esercizi i testi votati da un'apposita giuria di qualità; ascolta la diagnosi impietosa dei proprietari della storica libreria Tombolini di Roma e approda quindi alla Mondadori di Segrate. Nell'ufficio dell'ipsissimus, l'editor Antonio Franchini, artefice dei più eclatanti successi editoriali degli ultimi anni, viene pronunciato un termine desueto, sinonimo di qualità: la letterarietà. La letterarietà, secondo Franchini, «è un'idea discussa, allargata, non più condivisa», tanto che contesta a Cortellessa il fatto che le opere di un'autrice popolare come la Mazzantini ne siano prive. A questo punto, forse, non avrebbe stonato un accenno di autocritica corporativa. Se è vero che la proliferazione incontrollata dei titoli e la marginalità della letteratura vanno di pari passo, è altrettanto vero che una parte della responsabilità vada ascritta ai lettori di professione, divisi fra gli embedded che si sono fatti megafono del marketing e gli endogamici che dialogano solo fra colleghi, dimentichi che il lettore è il vero destinatario del discorso critico; ma certo era compito improbo concentrare tematiche vastissime in così poco tempo. Poi Cortellessa si reca al festival di Mantova, il raduno per eccellenza del popolo delle moleskine, e constata con incredulità la scelta dei giovani volontari di indicare come loro autrice favorita proprio Margaret Mazzantini, ravvisando in questa preferenza eterodiretta i frutti velenosi di un sistema malato. La soluzione, o meglio il percorso da intraprendere per disintossicarci, è indicata nel finale ideologico, ambientato a Topolò, un piccolo paese friulano ai confini con la Slovenia, in cui si svolge un'esclusiva manifestazione letteraria alla quale possono accedere non più di trenta persone. Questa è la parte del documentario che ha suscitato le polemiche più aspre in rete e su carta. Così facendo, è stato detto, le giuste accuse alla dittatura dei numeri, per cui la qualifica di best seller è oggi intesa come il meglio (best) in quanto venduto (seller), vengono assunte nuovamente come criterio discriminante, sebbene ribaltate di segno. Ciò che vale può essere apprezzato solo da pochi eletti. In entrambi i casi è il numero a farla da padrone, e le passate segnalazioni del Cortellessa critico militante, come gli ostici Ottonieri o Di Ruscio, sembrerebbero confermare questo sospetto. Eppure all'estero, in paesi in cui vigono le stesse logiche di mercato e analoghe concentrazioni editoriali, non è così da tempo. I romanzi formalmente tradizionali del francese Houellebecq, degli americani Franzen, DeLillo, McCarthy e del sudafricano Coetzee sono apprezzati dalla critica, tradotti ovunque e venduti in milioni di copie. La differenza sta nell'abitudine alla lettura, nel ridotto bacino d'utenza, nel fatto che in Italia le statistiche considerano un "lettore forte" colui che acquista un libro al mese, testi scolastici inclusi. Tutti gli altri, i lettori occasionali, sono vittime delle manipolazioni più subdole e perniciose. Franzen & Co. hanno successo non tanto perché riescono a coniugare cultura di massa e gusti sofisticati, quanto perché lì quegli strumenti di analisi sono considerati vecchi e inservibili come gli attrezzi di un museo contadino. L'edonismo consumistico e l'ascetismo accademico sono in realtà due opzioni ugualmente "seduttive", invitano all'evasione, presentano l'opera come "altro", forniscono un ruolo autogratificatorio. All'incauto lettore, in una fascetta apposita del libro, bisognerebbe ammonire che quella non è una finestra su Gardaland, né un campo di applicazione della formula di Boltzmann. Non è neppure un libro, a dire il vero: è la sua pelle di zigrino.

//////

In poche righe la biografia dei due autori

Andrea Cortellessa è nato a Roma nel 1968, è dottore di ricerca in Italianistica presso l'Università La Sapienza. Ha pubblicato il volume Le notti chiare erano tutte un'alba. Antologia di poeti italiani nella prima guerra mondiale (Bruno Mondadori, 1998) e per
"Einaudi Tascabile. Saggi" il saggio-biografia Ungaretti. Collabora con numerose riviste letterarie e con Alias (supplemento del manifesto), L'Indice, l'Unità, il mensile Poesia. Luca Archibugi (Roma 1957), scrittore, lavora alla Rai dal 1984 occupandosi di programmi culturali. Collabora anche lui ad
Alias ed è critico teatrale del Corriere della Sera.

Liberazione 02/10/2010, pag 8

Nessun commento: