lunedì 21 marzo 2011

La nostra libertà, la vostra paura

Un gruppo di richiedenti asilo e rifugiati: vi passate la patata bollente dei nuovi profughi, mentre noi moriamo

Siamo un gruppo di richiedenti asilo e rifugiati. Veniamo dalla Guinea, dal Togo, dalla Costa d'Avorio, dal Senegal, dall'Eritrea, dall'Afghanistan, da tutto il mondo. In questi giorni abbiamo gli occhi attaccati alle immagini dell'Egitto, della Tunisia, della Libia in fiamme. Qualcuno lo chiama "vento di libertà" e noi che siamo rifugiati in Italia ci sentiamo chiamati in causa. Cresce la rabbia insieme alla speranza. La speranza che questo vento di libertà arrivi fino a noi, più su e ben più giù dei Paesi maghrebini risvegliati. Più su in Italia, dove si dice che viviamo tutti in democrazia. Che significa democrazia? Rischia di essere una parola ambigua finché non si capisce chi è il popolo oggi, e cosa può e non può decidere. Un parola ambigua come libertà e forse come felicità. Libertà per noi non è una idea, non rincorriamo la sua inesistente assolutezza. Piuttosto la libertà è un'esperienza, è qualcosa che si fa, perennemente in divenire. Per noi che siamo scappati da Paesi dittatoriali essa ha a che vedere col sentimento della felicità, ma quando per le strade d'Italia ci guardiamo intorno non vediamo persone felici. Vediamo piuttosto volti stanchi e impauriti che ci guardano - noi, stranieri. La cosa che ci fa più male è la paura degli italiani, della gente comune, non dei politicanti di tutti i Paesi volgari e corrotti. Quello che preoccupa sembra essere non tanto il massacro in Libia ma la minaccia di una nuova invasione.
Vi chiediamo: da quando gli italiani hanno paura di chi lotta per la libertà? Da quando chi scende in piazza a manifestare, anche a costo di farsi ammazzare, è un potenziale criminale, un terrorista, un mostro? Quand'è che un libico, un tunisino o un egiziano che si rivolta contro le dittature diventa un clandestino? Che il vento di libertà arrivi più giù speriamo, nell'Africa sub sahariana, dalla quale molti di noi provengono e da cui sono dovuti fuggire dopo violenze e perdite di ogni tipo. Democrazia è un concetto politico che per esser vero chiede una economia giusta e una società felice. Altrimenti non è democrazia. Non ci fidiamo affatto di chi ci dice che c'è uno scontro di civiltà alla base dei conflitti attuali e che il problema in fondo è religioso: o Geddhafi, quindi, o l'integralismo islamico. Siamo un gruppo di musulmani, cattolici, cristiani ortodossi, atei e tra noi il problema, qui e nei nostri Paesi di origine, non è mai stato la religione. Il problema religioso nasconde sempre l'interesse economico e la legge del dominio.
Il titolo di un articolo su Repubblica del 24 febbraio "Inaccettabili i massacri dei civili ma Geddhafi resti" fa lo stesso giochino smascherato da Frantz Fanon più di cinquant'anni fa durante il colonialismo francese in Algeria. I benpensanti francesi dicevano no di fronte alle torture e allo spargimento di sangue della Francia in Algeria, ma ammutolivano ossequiosi a De Gaulle quando si trattava di affermare l'Algeria francese e la proprietà tutta francese della terra e delle vite algerine. Fanon, e noi oggi, rispondiamo: massacri e torture non sono affatto uno scandalo, niente di eccezionale per un governo strutturalmente dittatore e sanguinario. Basta con l'impietosirsi davanti a poveri corpi morti stringendo la mano a chi li uccide.
Oggi assistiamo a una vera guerra mediatica dei numeri: i morti sono cento, mille, diecimila. Non sapremo mai la verità della Libia attraverso le comunicazioni. Le comunicazioni sono il microfono dei potenti. France 24 parla ogni giorno della guerra civile in Costa d'Avorio mentre in Italia tutto tace. In Italia invece ci si passa la patata bollente dei nuovi richiedenti asilo libici, mentre gas e petrolio libico scaldano le case degli italiani e Berlusconi bacia la mano a Geddhafi, mentre Geddhafi costruisce nuovi lager nel deserto coi soldi del nostro presidente. Per non vederli più in Europa quelli come noi. Noi moriamo nel deserto libico. Intanto in Italia il business umanitario riprende vigore: Italia paese accogliente, al via le varie Confraternite a gestire i numeri di un nuovo capitale che pesa sopra le teste dei sopravvissuti libici e i sopravvissuti si piegano a dire grazie di tanta umanità pagata a prezzo d'oro dal ministero degli Interni.
Ultima questione, per ora: gli interventi militari dell'Onu, della Nato, degli Stati Uniti o dell'Europa nel resto del mondo. Chi giudica chi? Chi decide del bene e del male dell'altro? E' un problema spinoso. Anche noi abbiamo sperato nei giorni scorsi che l'Onu intervenisse in Costa d'Avorio mentre Gbabo per la seconda volta nella storia rastrella tortura e violenta tutte le notti i nostri amici ad Abidjan. Eppure, cercando di ragionare con calma, noi non crediamo negli interventi militari, anche se travestiti da umanitarismo e pacificazione. La politica internazionale interviene sempre a difesa di se stessa. Passati nelle carceri e nei campi di detenzione per aver creduto nella democrazia, nonostante tutto non chiediamo né interventi né manovre internazionali sopra di noi. Che gli interventi, così come gli interessi dei più forti, non si mascherino di improvvisa umanità.
Gruppo RAR (Richiedenti Asilo e Rifugiati Roma)


Liberazione 16/03/2011, pag 6

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