mercoledì 9 marzo 2011

La Banca Mondiale finanzia il carbone (e la società civile protesta)

Addio agli impegni presi a passare alle "rinnovabili": 6 miliardi per miniere in Sud Africa

Luca Manes*
Una settimana di mobilitazioni in tutto il Pianeta per chiedere alla Banca mondiale di smettere di finanziarie petrolio, carbone e gas. Il picco si è avuto lo scorso martedì, con azioni davanti agli uffici dell'istituzione sparsi per il mondo, tra cui quello di Via Labicana a Roma, ma anche a Washington, Londra e Parigi. Poi la protesta si è spostata sui social network, Facebook e Twitter in particolare.
La World Bank, infatti, continua a predicare bene ma a razzolare male. Secondo gli attivisti si ammanta di un falso virtuosismo quando prova a giocare un ruolo di primo piano nei vertici sull'ambiente - come accaduto sia a Copenhagen che a Cancun - con la finalità nemmeno troppo nascosta di gestire in prima persona le cospicue risorse destinate alla finanza per il clima.
Nella sostanza dei fatti, i banchieri di Washington continuano su un solco tracciato da un paio di decenni a questa parte: erogare fondi per progetti estrattivi, nonostante già nel 2003 una commissione indipendente voluta dalla stessa Banca la avesse esortata ad abbandonare subito il carbone e a "dismettere" il petrolio nell'arco di cinque anni. Solo nel 2010, al numero 18 di H Street hanno staccato assegni per un totale di 6,6 miliardi di dollari destinati a progetti per la produzione di combustibili fossili, con un incremento di ben il 116 per cento rispetto all'anno precedente.
La parte del leone l'ha fatta la centrale a carbone di Medupi, in Sudafrica, per la quale sono stati stanziati quasi quattro miliardi di dollari. Una volta terminato, l'impianto sarà il terzo più grande al mondo, peraltro in un Paese dove le potenzialità per le fonti rinnovabili sono immense, e contribuirà al surriscaldamento globale emettendo una media annuale di 30 milioni di CO2. Per alimentarlo saranno aperte fino a 40 miniere di carbone. Ciliegina sulla torta, mentre la Eskom, la multinazionale sudafricana capofila del consorzio costruttore, beneficerà di tariffe energetiche agevolate, per la popolazione locale si calcola che il costo delle bollette aumenterà di almeno il 30per cento. Oltre al danno, la beffa.
«Alla faccia della retorica sulla lotta alla povertà, suo obiettivo primario, per anni la Banca mondiale ha garantito soldi pubblici a governi autoritari per progetti che causano danni all'ambiente, violazioni dei diritti umani e contribuiscono ai cambiamenti climatici», è il grido di allarme della CRBM, realtà capofila della protesta in Italia, che per sostanziare le sue perplessità cita numerosi casi del passato.
Tra questi il mega oleodotto Ciad-Camerun, che negli anni Novanta veniva sbandierato dalle alte sfere dell'istituzione come il "progetto modello" per eccellenza, l'esempio da seguire. Un'opera che ha provocato enormi danni ambientali, favorendo con i suoi proventi l'acquisto di armi da parte del governo ciadiano. Più vicino a noi, con sbocco sul Mar Mediterraneo, è ormai attiva la Baku-Tbilisi-Ceyhan, una pipeline che parte dall'Azerbaigian per attraversare zone ad alto rischio della Georgia e una vasta parte del territorio del Kurdistan turco, la cui realizzazione è stata vincolata ad accordi capestro a vantaggio delle multinazionali che compongono il consorzio costruttore, tra cui la BP.
Proprio in questi mesi la World Bank sta portando a termine la revisione della sua strategia sull'energia, che poi sarà adottata per il periodo 2011-2021. Molto probabile che l'approccio rimarrà quello del "business as usual", ovvero pieno sostegno ai grandi progetti infrastrutturali, destinati alla produzione di energia che viene poi rivenduta sui mercati internazionali, invece che rispondere ai bisogni energetici delle popolazioni povere dei Paesi dove vengono realizzati gasdotti o oleodotti. A trarre giovamento dello status quo sono le oil corporation e le elite dei Paesi del Sud del mondo. Come la storia ci insegna fin troppo bene.
*CRBM


Liberazione 03/03/2011, pag 4

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