mercoledì 2 marzo 2011

Libia, qualche distinguo e un po' di storia

Alberto Burgio
Che cosa accade e, soprattutto, che cosa può accadere in Libia? Mentre scriviamo le notizie si susseguono contraddittorie. Molte agenzie danno Gheddafi per spacciato, asserragliato nel bunker di una Tripoli sotto assedio. Ma sino a poche ore fa altre fonti descrivevano una capitale calma, sotto controllo, al pari dell'aeroporto militare di Mitiga del quale, pure, si era detto fosse stato espugnato dagli insorti. Sembra improbabile comunque che il regime possa resistere e anche l'ipotesi del negoziato con i ribelli, ventilata da ultimo da Saif al-Islam (uno dei figli del Colonnello, interprete dell'anima «moderata» del regime), appare di ora in ora più inverosimile.
Restano le domande. La rivolta libica è analoga a quelle che hanno decretato la fine delle dittature tunisina ed egiziana? E' parte del terremoto che da settimane scuote tutto il nord Africa e che va propagandosi fino al Medio Oriente minacciando la stabilità della stessa Arabia Saudita e del regime degli ayatollah? Indubbiamente sussistono molte connessioni. Quale che sia la natura della rivolta libica, non è casuale che essa si verifichi all'indomani delle insurrezioni in Tunisia e in Egitto e mentre si fanno incerte le sorti dei governi di Yemen, Bahrein e Giordania.
Ma in questi casi - pur differenti tra loro - siamo di fronte a moti popolari spontanei, frutto di una situazione sociale esplosiva. Come emerge dallo Human Development Index, Tunisia ed Egitto (ma anche Marocco e Algeria) registrano tassi elevatissimi di sviluppo sociale a fronte di percentuali record di disoccupazione. I giovani tunisini ed egiziani sono andati a scuola, si sono diplomati e navigano su internet (uno dei principali vettori delle insurrezioni) ma non trovano lavoro. Questa situazione - resa intollerabile dalle politiche di «rigore» imposte dai governi per far fronte alle conseguenze della crisi economica globale - ha fatto esplodere la rabbia contro le oligarchie corrotte al potere (il che peraltro non garantisce l'esito democratico delle transizioni, se è vero che in Egitto l'esercito resta la forza di gran lunga prevalente non solo sul piano politico ma anche sul terreno economico).
In Libia, in particolare in Tripolitania, lo scenario è diverso. Benché quella dell'equa distribuzione dei proventi dell'esportazione di petrolio e gas sia una leggenda, le condizioni di vita della popolazione sono accettabili. I prezzi sono calmierati, i redditi adeguati (il reddito medio pro-capite è di 12mila dollari, sei volte quello egiziano). E anche se Gheddafi non è mai riuscito a pacificare e unificare realmente il Paese (la Cirenaica non lo ha mai riconosciuto e il raìs si è via via inimicato le grandi tribù del Gebel che ora assediano Tripoli), in Libia - a differenza di quanto avviene nei Paesi confinanti - non sembra vi siano figure di spicco in grado di guidare il dissenso sino a farlo esplodere.
Come ha osservato su queste pagine Angelo Del Boca, è molto probabile che la rivolta in Libia sia stata innescata dall'esterno, da gruppi di libici residenti all'estero. Ed è altrettanto probabile che questi nemici di Gheddafi abbiano goduto del sostegno dei governi occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia in testa) da sempre nemici del Colonnello. Un po' di storia è bene infatti tenerla presente, non dimenticare i peccati originali (l'evacuazione forzata delle forze statunitensi e britanniche dalle basi militari, la nazionalizzazione delle proprietà della British Petroleum e l'imposizione alle altre compagnie di elevate quote per lo sfruttamento del petrolio libico) nel segno dei quali si consuma la fine del regno filo-occidentale di Idris I.
Tutte queste considerazioni suggeriscono di essere cauti prima di parlare di «rivoluzione» nel caso della Libia e non permettono di escludere che ci si trovi piuttosto dinanzi a una guerra civile sponsorizzata dalle maggiori potenze capitalistiche. Così si spiegano anche i venti di guerra che spirano da quando la Libia brucia.
Gli Stati Uniti, spalleggiati dalla Francia, scaldano i motori. Obama non esclude l'intervento militare della Nato. All'Onu si parla pudicamente di no-fly zone, occultando il fatto che per tenere a terra l'aviazione libica sarebbe necessario l'uso della forza. A Sigonella si preparano i caccia e puntualmente l'on. Fassino dichiara che «occorre intervenire in ogni modo» per costringere Gheddafi a mollare la presa. A vent'anni di distanza sembra di rivivere i giorni della prima Guerra del Golfo e delle «guerre umanitarie» nei Balcani. Allora una cosa va detta con la massima chiarezza. Se Gheddafi ha veramente scatenato il massacro della sua gente, si è macchiato di crimini gravissimi. E' indubbio che la sua quarantennale dittatura ha calpestato diritti fondamentali dei libici e di centinaia di migliaia di migranti che Gheddafi ha imprigionato per nome e per conto di quel «mondo libero» che oggi si riempie la bocca di buoni principi. Ma tutto ciò non legittima in alcun modo un'ennesima sporca guerra che avrebbe un solo scopo: permettere agli Stati Uniti di rimettere le mani sul petrolio e sul gas libico, vitali per gran parte dell'Europa e per la stessa Cina.
Alberto Burgio


Liberazione 27/02/2011, pag 1 e 3

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