mercoledì 9 marzo 2011

Gli affari del signor Gheddafi

Nicola Melloni
La crisi libica ha portato sulle prime pagine di molti giornali un problema che fino a qualche settimana fa si era volutamente ignorato, cioè l'importanza dei capitali libici nell'economia italiana ed europea ed il ruolo giocato dalla famiglia Gheddafi negli affari economici libici. I numeri degli investimenti libici sono ormai noti: il fondo sovrano libico (Lia) possiede il 2,6 percento di Unicredit, il 2 percento di FinMeccanica ed il 3,27 percento di Pearson (la società che, tra le altre cose, è padrona del Financial Times); la Banca Centrale Libica a sua volta controlla il 4,05 percento di Unicredit - il che vuol dire che il capitale libico è il secondo investitore della più grande banca italiana, a pochissima distanza da Mediobanca; la Lafico detiene tra le altre cose il 7,5 percento della Juventus, per un totale di quasi tre miliardi e mezzo di euro del colonnello investiti in Italia, circa il 10 percento del totale degli investimenti libici all'estero, inclusi una ventina di milardi in contanti detenuti principalmente nelle banche londinesi e diverse quote in società come British Petroleum, Shell, Standard Chartered, Siemens, etc.
Fedeli al motto pecunia non olet i mercati internazionali non si sono curati assolutamente dell'origine di quei soldi, salvo accorgersi dei crimini di Gheddafi nelle ultime settimane.
Dunque, l'Onu ha deciso di congelare i beni delle suddette società di investimento con l'obiettivo di bloccare l'accesso ai fondi da parte della famiglia del colonnello. A livello teorico queste sono però istituzioni nazionali libiche e non aziende private della famiglia Gheddafi anche se in realtà è molto difficile fare una vera distinzione tra quello che c'è di pubblico e di privato in situazioni come queste. Nell'ultima decade i fondi sovrani sono diventati attori importantissimi nel mondo della finanza internazionale. Molti paesi esportatori - come i produttori di petrolio e la Cina - hanno istituito questi fondi per utilizzare i ricavi del commercio internazionale e nella maggior parte dei casi lo hanno fatto comportandosi come fondi privati, cercando semplicemente di aumentare i profitti investendo in grandi compagnie internazionali e sottoponendosi a sistemi di governance simili a quelli di istituti privati (i cosiddetti "Principi di Santiago"). La realtà però è assai diversa e nasce dalla diversa struttura proprietaria - sono fondi pubblici, appunto. Ma questo dato nasconde una domanda fondamentale. Chi possiede veramente i fondi sovrani? Lo stato? Il governo? La nazione? Non sono domande inutili e lo sono ancora meno quando si parla di paesi come la Libia che non sono democrazie ed in cui il governo non è eletto ma controllato da dittatori come fosse qualcosa di personale. Ancor peggio va in paesi come l'Arabia Saudita, dove non solo il governo ma lo Stato stesso si identifica con la famiglia regnante. In questi casi si tratta di forme di capitalismo patrimoniale, un sistema istituzionale in cui potere politico e potere economico sono fondamentalmente indistinguibili ed i fondi sovrani sono parte di questro groviglio.
La conseguenza di questa confusione è che la direttiva dell'Onu viene applicata solo a piacimento. Molti governi l'hanno adottata, ma altri come quello italiano hanno deciso di ignorarla sostenendo che Lia, Lafico etc. sono finanziarie non direttamente riconducibili a Gheddafi. Ma anche in paesi dove la risoluzione è stata recepita dal governo, come in Gran Bretagna, molte società coinvolte, a partire da Bp, non hanno ancora assunto nessuna iniziativa per congelare i fondi libici. La situazione è ovviamente molto complicata e denuncia l'ipocrisia di fondo che domina il capitalismo globalizzato. I fondi sovrani stanno diventando un perno fondamentale del mercato finanziario e il loro intervento nel 2007-08 è stato fondamentale per salvare diversi colossi bancari come Citigroup e la maggior parte delle grandi compagnie quotate in borsa sono assai restie ad adottare iniziative "politiche" contro questi fondi: la loro potenza di fuoco è assai elevata e nessuno vuole alienarsi possibili fonti di finanziamento. Ma il problema va ben oltre e ci viene ben spiegato dal tipo di investimenti che questi fondi effettuano. Investimenti che hanno spesso un valore politico e non prettamente economico. Come detto in precedenza, Lia investe in settori strategici per gli interessi libici, cioè in diverse compagnie petrolifere (Shell, Bp) o colossi bancari (Unicredit, Standard Chartered). Se ben ricordiamo la vicenda Unicredit di qualche mese fa, le dimissioni di Profumo furono proprio provocate dall'innalzamento della quota di capitale libico nella banca e crearono un caso politico di grande rilevanza. In maniera molto simile si comportano gli altri fondi sovrani che sembrano avere a cuore gli obiettivi geopolitici dei propri paesi (si pensi al caso del China Investment Corp in Africa) e non solo e non tanto la profittabilità degli investimenti. Il rischio è che questi fondi sovrani vengano usati come longa manu dei governi per controllare alcuni settori strategici dell'economia e della finanza internazionale, in una commistione indistinguibile di interessi economici e politici, pubblici e privati. Tale degenerazione del capitale internazionale crea una situazione difficile da definire, con governi in ginocchio davanti alle banche e banche in ginocchio davanti ad altri governi che sono in questo caso investitori, una situazione impossibile da governare e con conseguenze imprevedibili sulla stabilità dei mercati e sulla natura dei regimi politici.


Liberazione 08/03/2011, pag 1 e 3

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