lunedì 21 marzo 2011

Il pensiero di Rousseau e la rivoluzione comunarda

Alle radici della democrazia consiliare più radicale

Pubblichiamo di seguito stralci di un saggio di Dino Greco sul pensiero politico di Jean Jacques Rousseau, che ispirò profondamente la "forma politica" della rivoluzione comunarda e l'originale concezione della democrazia che si espresse in quella breve, ma straordinaria vicenda.

Dino Greco
Rousseau si propone di provare la coerenza teorica di un modello, di un sistema di istituzioni politiche capace di inverare un reale progetto di libertà e di eguaglianza. L'imponenza del compito è subito dichiarata: «volendo prendere il termine nella sua rigorosa accezione, una vera democrazia non è mai esistita e non esisterà mai». Anche nella democrazia, «come la volontà particolare agisce senza posa contro la volontà generale, così il governo esercita uno sforzo continuo contro la sovranità», fino al rischio di compromettere e dissolvere il patto sociale. Servono allora delle misure radicali, coerenti fino al limite estremo, tali da preservare l'autorità sovrana del popolo. E' nello sforzo di dare forma a questo edificio che Rousseau si dedica all'impresa di ingegneria democratica più conseguente che mente politica avesse fino ad allora immaginato.
Il suo lavoro si concentra su un punto preciso: come impedire al governo, all'esecutivo, di sopraffare il popolo, di sostituirsi alla volontà generale, pericolo sempre latente che non viene scongiurato dalla promulgazione di un corpo di leggi, per buono che esso sia.
Il popolo deve dunque periodicamente riunirsi in assemblea, esercitando un diritto che nessun impedimento può revocare, ragion per cui, «più il governo è forte, più il sovrano deve mostrarsi». (…) Quel che conta sottolineare è che decisivo è il controllo dell'esecutivo al quale non vanno concessi margini discrezionali nell'esercizio del potere, perché, per sua natura, l'esecutivo tende ad autonomizzarsi e a separarsi dall'autorità che l'ha creato per servirla. Per questo, quando l'assemblea è legittimamente riunita «ogni giurisdizione del governo cessa, il potere esecutivo è sospeso e la persona dell'ultimo dei cittadini è atrettanto sacra e inviolabile quanto quella del più alto magistrato». L'assemblea avoca a sé ogni potere. In quel momento ogni carica cessa di esistere e non vi è più alcuna autorità sovraordinata, «perché dove c'è il rappresentato non c'è più il rappresentante».
Vi è una malattia letale che può minare, a dispetto di tutti gli accorgimenti formali, la sovranità del popolo ed è quella che, con un'espressione contemporanea, potremmo definire l'anomia, il disinteresse per la cosa pubblica, sempre alimentati dal potere costituito che non ama controlli e sorveglianti.
L'anima di un popolo, l'antidoto che ne preserva la funzione sovrana è la partecipazione. «Appena qualcuno, a proposito degli affari di Stato, dice: "che mi importa?", lo Stato è da ritenersi perduto».
Nessuna architettura formalmente democratica sopravvive se scatta un nefasto principio di delega. Dal disinteresse verso la politica, dalla delega del suo esercizio ad una casta che l'amministra in proprio nasce il «sistema dei deputati o rappresentanti del popolo nelle assemblee della nazione». La sovranità si sposta altrove, il potere tende ad autonomizzarsi e le forme di controllo - sempre più sfumate ed indirette - illangiudiscono. La conclusione è di un rigore inesorabile: «la sovranità non può venir rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alinenata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa o è un'altra; una via di mezzo non esiste». Ecco perché «i deputati del popolo non sono dunque e non possono essere i suoi rappresentanti, sono solo i suoi commissari». Ne consegue un limite assai preciso ad ogni negoziato che essi intraprendano nel nome del popolo. Essi «non possono concludere nulla in modo definitivo. Qualunque legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una legge». (…) Il contratto sociale diventò la bandiera della rivoluzione giacobina; il mito (e la pratica) della democrazia diretta vivrà nella breve, ma quanto straordinaria epopea della Comune di Parigi; e lo stesso movimento comunista ne mutuerà - almeno nelle fasi più feconde - l'ispirazione di fondo. E se si guarda con attenzione alle stesse esperienze di democrazia consigliare in cui si è espresso il movimento operaio in Italia nel biennio rosso del primo dopoguerra e poi, verso la fine degli anni Sessanta e per tutto il decennio successivo, vi si troveranno forme organizzative ispirate ad un concetto radicale di democrazia diretta molto prossime a quelle suggerite da Rousseau nel contratto. Forse una vera democrazia non esisterà mai, aveva detto Rousseau. Ma non per questo ad essa non si deve tendere con ogni determinazione, scansando pretesti, interessi di parte, meri opportunismi, perché «dove il diritto e la libertà sono tutto gli inconvenienti non contano nulla».


Liberazione 18/03/2011, pag 6

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