mercoledì 3 agosto 2011

«Nessun paese arabo potrà sfuggire alle rivolte»

Khaled Hadadah segretario generale del Partito Comunista libanese

Stefano Galieni
Khaled Hadadah, segretario generale del Partito Comunista libanese, è in questi giorni a Roma dove sta incontrando i rappresentanti della sinistra italiana. A margine di un colloquio con Oliviero Diliberto, ha provato a tracciare un quadro di quello che è il punto di vista di un partito radicato in un paese come il Libano, in perenne tensione.
«La situazione nel nostro Paese è precaria, nel partito la definiamo "guerra civile continuativa" anche se in questo momento non si combatte. I 4 milioni di abitanti sono divisi in 18 confessioni religiose, se si considerano le differenze normative interne ad ogni singola confessione - basti pensare alla diversità di diritti fra uomini e donne - i nostri cittadini si ritrovano in circa 35 condizioni diverse, non esiste un quadro complessivo e uniforme di leggi. Come se fossimo tutti divisi in settori non comunicanti, ognuno dei quali ha un proprio sistema formativo, dalle scuole primarie all'università, un diverso sistema sanitario, ovviamente propri mezzi di comunicazione e alla fine propri partiti che hanno base confessionale».
Esistono però forze che cercano di rompere queste divisioni.
Di fatto solo il nostro partito e il Partito nazionalista siriano sono "partiti libanesi". Le strutture nazionali sono deboli tanto che il governo finanzia molto più le scuole private - confessionali - che quelle pubbliche. Noi crediamo che laddove ci sono processi di integrazione positiva si è contrastati. Secondo noi lo stesso regime libanese minaccia l'esistenza del Libano. Siamo poi al centro di un contesto in cui c'è uno scontro forte fra le forze arabe e il progetto di un nuovo ordine mediorientale voluto soprattutto dagli Usa.

Quale è secondo voi il progetto americano?
Il proseguimento di un opera iniziata nel 1917. Ora si cerca di frammentare ulteriormente gli Stati. Si è cominciato con il Sudan, si vorrebbe dividere in 3 parti l'Egitto, in 4 la Siria, in 3 o 4 aree i Paesi del Golfo, si vorrebbe il Libano diviso in 8 "cantoni". Ovviamente nel progetto rientra anche la Libia. Le direttive le ha definite Bernard Lewis, già consigliere politico di Bush padre, dividere in base a criteri etnici o religiosi per indebolire le forme di resistenza comune e garantire tanto l'egemonia israeliana quanto il controllo sul petrolio. Lo stesso Obama ha definito gli interessi americani in Medio Oriente, fondamentali per l'esistenza stessa degli Stati Uniti.

Ma Obama parla ormai di una soluzione della questione palestinese in base al principio: due popoli, due stati?
Un progetto pericoloso. Fondato su uno stato ebraico potente e su una entità palestinese debole e senza diritto ad avere un esercito, ridotta quasi al rango di municipalità. Il tutto con l'obbligo di allontanarsi per i palestinesi che risiedono nei pressi degli insediamenti israeliani. Per questo intendiamo il sionismo come la prima e più antica forma di fondamentalismo. Un tentativo di normalizzazione che avviene in un contesto particolare in cui si vorrebbe spezzare la marcia delle popolazioni arabe. Anche la Francia ormai preme per il riconoscimento della Palestina senza dover attendere il soddisfacimento delle aspettative Usa e nell'Assemblea generale dell'Onu sono pochi i Paesi che non sostengono la Palestina.

Lei fa spesso riferimento alle rivolte arabe
Si perché hanno un quadro comune. Nei nostri precedenti congressi (IX e X) dicevamo già che il regime e i regimi arabi erano in crisi. Tanto la Lega Araba che i singoli governi si sono dimostrati inadeguati ad affrontare la crisi economica, ne sono stati investiti in pieno e questo li porterà alla morte. Povertà e fame sono prodotto della crisi, basterebbe una redistribuzione del 10% dei profitti derivanti dal petrolio per risolvere i problemi ma si sono imboccate le strade neoliberiste. Quanto è accaduto in Egitto e Tunisia non è riconducibile ad una idea di rivoluzione socialista, anche se i minatori tunisini e gli operai egiziani sono stati fra i protagonisti della cacciata dei dittatori. Si tratta di rivolte di natura nazional democratica che però rappresentano una contro offensiva ai progetti statunitensi. Non a caso mentre i precedenti regimi, anche se indirettamente, sostenevano Israele, oggi si appoggia più espressamente il popolo palestinese. La riapertura del confine di Rafah ne è un esempio, il sostegno alla riunificazione fra Gaza e Cisgiordania, fra Hamas e Fatah ne è un altro. Gli Stati Uniti cercano di trovare alleanze costruendo compromessi con i Paesi del Golfo, con la Turchia, con organizzazioni islamiche moderate come i Fratelli Musulmani, per accerchiare le rivolte e circoscriverle. In Yemen e Bahrein ci sono stati diretti interventi militari.

E in Siria?
Ho partecipato al congresso del Partito comunista siriano l'8 marzo, pochi giorni prima delle prime manifestazioni. C'erano anche rappresentanti del governo. Si è detto che nessun paese arabo potrà sfuggire alle rivolte e che l'unica soluzione è realizzare riforme democratiche e bloccare le privatizzazioni. C'è il rischio che in Siria prevalga lo scollamento popolare con il governo e tornino in auge forze religiose. Purtroppo si è imboccata la strada della repressione militare. A mio avviso esistono ancora margini di trattativa, coinvolgendo anche gli oppositori politici oggi detenuti e accettando una vera democrazia. Se non si accetta questo la fine è inevitabile anche perché la crisi siriana ha ormai un contesto internazionale.


Liberazione 10/06/2011, pag 5

Nessun commento: