venerdì 5 agosto 2011

Giornalisti, avvocati e parlamentari: «Aprite le galere per immigrati»

Cie Giornata contro il "divieto di informare"

Stefano Galieni
Domani, in numerosi centri di identificazione ed espulsione italiani, entreranno parlamentari dell'opposizione per denunciare soprattutto il divieto di accesso per i mezzi di informazione. Sarà una giornata utile e importante che coinvolgerà anche giornalisti, avvocati, attivisti antirazzisti e di associazioni umanitarie, migranti. Molte le adesioni, anche eccellenti, segno di un pezzo di istituzione e del mondo dell'informazione - anche Fnsi e Ordine dei Giornalisti sono fra i promotori - che si muove. Fra i parlamentari ci saranno anche alcuni di coloro che, direttamente o indirettamente, hanno contribuito, con la legge 40 del 1998, ad istituire quelli che allora si chiamavano Cpt, resi poi ancora peggiori con il progressivo innalzamento dei tempi di trattenimento, con il deteriorarsi scontato delle condizioni di vita e spesso di "non vita" di cui si ha ampia letteratura, con lo squallido business che attorno a tale sistema si è determinato.
Quasi 13 anni di storia di queste strutture che hanno prodotto negli anni morti, innumerevoli tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, brutalità puntualmente ma inutilmente denunciate, sommosse spesso sedate con il manganello, disperazione e rabbia. Chiunque in vita propria vi abbia messo piede almeno una volta e non per una "visita guidata" concordata con gestore e prefettura, si è potuto rendere conto di come sia di fatto impossibile parlare di umanizzazione di questi luoghi, peggiori del carcere, in cui ora si potrà restare rinchiusi sino a 18 mesi senza aver commesso reato, senza poter godere neanche dei diritti riservati ai detenuti.
Un bilancio sul "sistema di detenzione amministrativa" va fatto e va fatto ora, se si vuole essere in grado di elaborare alternative. Il bilancio dei Cie è fallimentare sotto tutti i punti di vista, in primis politico ed etico; privare le persone della libertà personale parcheggiandole in discariche umane in attesa di potersene o meno liberare è un crimine vero e proprio. Ma se anche si prova ad accettare la logica che ha introdotto questo perverso meccanismo nell'ordinamento italiano, il risultato non cambia. All'epoca - governava il centro sinistra - si disse che i centri erano richiesta esplicita dell'Europa per il controllo delle frontiere. Oggi i centri in cui più massiccia è la detenzione sorgono al di fuori dei confini europei, ad est come a sud, secondo uno schema che ha portato ad esternalizzare i confini e a lasciar fare ad altri regimi il lavoro sporco.
La direttiva rimpatri, approvata dal parlamento europeo nel 2008 e di fatto applicata solo negli aspetti repressivi in Italia, non è un testo rivoluzionario ma in cui si afferma che la detenzione amministrativa deve costituire l'extrema ratio e non la norma per affrontare l'immigrazione non regolare. In Italia il governo Maroni (non è un refuso) fa esattamente il contrario. In 13 anni, malgrado i continui mutamenti introdotti - dalla Bossi Fini che ha raddoppiato i tempi di trattenimento fino alle reiterazioni dei "pacchetti sicurezza" - il numero di persone effettivamente rimpatriate è rimasto pressoché inalterato, una percentuale che non raggiunge il 40% in media. Tante invece le vite rovinate di persone che dai centri escono e entrano; mandate via, senza identificazione da parte delle rispettive autorità consolari, restano invisibili e vulnerabili, sono riprese e rimesse in gabbia (di gabbie in gran parte si tratta) in una sequela senza fine.
Un destino amaro che produce degrado, crollo fisico e psichico, distrugge le persone, le annienta nel profondo. Un uomo o una donna usciti da un Cie li si riconosce da come camminano, da quel misto di rabbia, senso di ingiustizia, paura e rassegnazione verso il futuro che li accompagna. Questo infernale meccanismo concentrazionario costa ogni anno centinaia di milioni di euro, ne beneficiano gli enti gestori dei centri; crea, soprattutto al sud, una occupazione precaria e di stampo clientelare, trasforma gli agenti dei corpi dello Stato in secondini, realizza insomma vere e proprie polveriere sociali disumane la cui esistenza non trova ragion d'essere. Se le stesse risorse fossero investite in processi di inclusione sociale, non solo si distruggerebbero meno vite ma si migliorerebbe la qualità sociale della vita per migranti e autoctoni. Ma viene il dubbio retorico che l'incubo dei Cie sia ancora funzionale al mantenimento, in condizione di maggiore subalternità, di un esercito di manodopera di riserva e di un movente intimidatorio di carattere fortemente razzista.
Bisognerebbe ripartire da questo punto per pensare al futuro; un futuro in cui, grazie anche all'arrivo di giovani generazioni pronte alla ribellione, le gabbie dei centri non saranno sufficienti a fermare la richiesta di diritti ma serviranno solo ad accrescere l'immagine di una potenza in declino, opulenta ma cattiva verso chi pretende una più equa distribuzione di beni e chi nutre ancora aspettative di eguaglianza. Domani saremo davanti ai Cie per chiedere libertà di accesso ma dobbiamo prepararci a dire che il tempo della detenzione e delle frontiere asimmetriche volge al termine.


Liberazione 24/07/2011, pag 7

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