venerdì 5 agosto 2011

Schierati sempre, a torto o a ragione

Nell’ultimo libro di Angelo d’Orsi, “L’Italia delle idee”, 150 anni di storia degli intellettuali italiani

Guido Liguori
Da Cavour e Mazzini a Gianfranco Miglio e Norberto Bobbio, passando per Labriola e Mosca, Oriani e Papini, Croce e Gramsci, Gentile e Bottai, Gobetti e De Luca, Della Volpe, Togliatti, Capitini e tanti altri. Centocinquant'anni di pensiero politico italiano raccontati in oltre 400 pagine da Angelo d'Orsi, con la competenza e la verve che conosciamo, nella sua ultima fatica, L'Italia delle idee. Il pensiero politico in un secolo e mezzo di storia (Bruno Mondadori, 2011, pp. 432, euro 23). Vincitori e vinti, buoni e cattivi son tutti presentati in modo da ricordarci come gli intellettuali davvero non costituiscano un piano separato e sedicente nobile dell'edificio sociale, ma - volenti o nolenti - siano impegnati a pieno titolo nella battaglia politica, poco importa se direttamente o sub specie "battaglia delle idee". Ciò che il libro riesce a essere, infatti, non è una sorta di manuale scolastico in cui il pensiero degli autori è presentato asetticamente, in modo avulso dal contesto storico, evidenziandone unicamente i nessi col pensiero che precede o con quello che segue. Al contrario, il tentativo è quello di parlare dell'oggetto specifico della ricerca (il pensiero politico, i pensatori politici) correlandolo fortemente alla storia, alle vicende politiche, alle lotte - rispetto a cui gli intellettuali non possono che, in un modo o nell'altro, schierarsi, prendere parte e parteggiare. I primi capitoli del libro sono dedicati all'800, ai protagonisti del Risorgimento e dei primi anni dell'Unità nazionale. La sinistra risorgimentale e il positivismo, De Sanctis, Lombroso, Oriani: autori molto diversi, che concorrono tutti, ciascuno a modo suo, a costruire un'idea di nazione che le «dure repliche della storia» si incaricarono ben presto di falsificare. I processi economici e sociali di una unità nata male conducono infatti gli intellettuali, negli ultimi decenni dell'800 e nel primo del '900, a schierarsi contro lo stato di cose esistente. E dunque in gran parte anche, cosa che non sarà senza conseguenze, contro la democrazia, per come si era affermata negli ultimi decenni dell'800. Certo, l'imporsi della società di massa portava molti a una reazione naturalmente aristocratica. Era il riflesso dei vecchi ceti privilegiati che non volevano cedere potere e ricchezza e che contrapponevano alla "quantità" delle masse la "qualità" delle élites. In Italia questa dislocazione antidemocratica degli intellettuali fu però facilitata da una democrazia parlamentare ancora ristretta, e per di più fondata sulla corruzione e sulle camarille, senza veri grandi partiti nazionali in grado di canalizzare interessi e ideali per trasporli su un piano non grettamente economico-corporativo. Il mito liberale del parlamentarismo senza partiti (quello ancora oggi caro ai radicali, per intenderci, che sproloquiano continuamente di "partitocrazia") nella realtà fu soltanto, e non può che essere, lotta e mediazione tra gruppi affaristici e di potere. Il periodo controverso del giolittismo almeno in parte spiega la collocazione antidemocratica degli elitisti e dei liberali italiani di ogni risma (Croce, Gentile, La Voce, poi Gobetti), dei sindacalisti rivoluzionari seguaci di Sorel, e anche dei socialisti anti-riformisti, da Bordiga a Gramsci. Bisognerà passare per il bagno tragico del fascismo per capire il valore della democrazia, occorrerà l'affermazione dei grandi partiti di massa per dar vita a una dialettica democratica - quella della cosiddetta "prima repubblica" - che oggi non si può che rimpiangere, a fronte dello spettacolo dell'odierna democrazia populistico-leaderistica. D'Orsi non si sofferma solo sui "suoi" autori, quelli da sempre al centro delle sue ricerche, in primo luogo al Gramsci fondatore dell'Ordine Nuovo e autore dei Quaderni. Il libro dedica molte pagine, e di grande interesse, al fronte conservatore e reazionario, a Mosca e a Pareto prima, a ciò che ribolle nel calderone culturale del fascismo poi. Rocco e Bottai, Gentile e Ugo Spirito, il corporativismo: i giudizi dell'autore sono taglienti e spesso tendono a ridimensionare il credito che alcune di queste correnti culturali (specie quella corporativista degli allievi di Gentile e poi di Spirito) hanno di frequente goduto anche a sinistra. Come di grande interesse sono le pagine riservate alla deriva razzistica del Regime, con il gruppo raccolto intorno alla rivista La difesa della razza. Le riviste - più in generale - appaiono tra le principali protagoniste della vita culturale nazionale. Le "riviste fiorentine" in primis, in particolare La Voce di Papini e Prezzolini (soprattutto di Prezzolini), che servì anche da modello per i tentativi con i quali, per approssimazione, Antonio Gramsci andò forgiando gli strumenti della contro-egemonia, in grado di esercitare quel «lavoro educativo-formativo che un centro omogeneo di cultura» per il comunista sardo si doveva effettuare al fine di costruire un nuovo senso comune di massa. L'attenzione per le "forme" della cultura - nonostante le influenze dell'idealismo - sarà anche fondamentale nell'Italia repubblicana, tanto più per la sinistra e per la sua elaborazione teorico- politica, che può essere proficuamente letta per alcuni decenni - come in buona parte anche D'Orsi fa - come dialettica tra riviste: Rinascita e Il politecnico, Società e Studi filosofici, Il contemporaneo e Ragionamenti. Proprio il gruppo di intellettuali socialisti eretici raccolti intorno a quest'ultima rivista produsse, a metà anni ‘50, una proposta complessiva di riorganizzazione della cultura senza e oltre i partiti. Ritornava il vecchio mito del "protagonismo degli intellettuali", che veniva proprio dalla Voce di Prezzolini e che costituisce una tendenza periodicamente riemergente nella nostra storia nazionale (dall'azionismo fino a MicroMega, vien da dire). Rispetto a questa corrente di fatto liberale (al di là della collocazione politica contingente), la strada maestra dei comunisti è sempre stata e resta quella indicata dall'Ordine Nuovo e da Gramsci: la centralità del partito come vero strumento per fare cultura - se il fine della cultura vuole essere quello non di cancellare la "separatezza" degli "intellettuali" di professione e tendenzialmente la distinzione stessa tra dirigenti e diretti. Il che vuol dire espandere e inverare la democrazia. Anche per questo una storia delle idee politiche fatta come quella che il libro di D'Orsi propone può essere molto utile.


Liberazione 24/07/2011, pag 14

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