venerdì 5 agosto 2011

Se l'America fa bancarotta rischia l'economia globale

Scenari Obama discute con i repubblicani una dura manovra di risanamento

Rosario Patalano*
Mentre l'attenzione degli europei è rivolta alla nuova ondata speculativa che colpisce questa volta i titoli italiani, dall'altra parte dell'Atlantico si sta consumando una tragedia ben più grave che riguarda il debito degli Stati Uniti e la tenuta del dollaro come moneta internazionale.
I toni allarmati con cui Barack Obama ha presentato le prospettive future del debito pubblico Usa, minacciando esplicitamente la possibilità della bancarotta, rivela che si è toccato il punto estremo. Le difficoltà del bilancio pubblico Usa non saranno prive di conseguenza per il resto del mondo dato il ruolo centrale che l'economia statunitense ancora riveste.
Diamo qualche cifra per capire l'entità della posta in gioco. Alla fine di giugno l'ammontare del debito pubblico Usa ha raggiunto il totale di 14.460 miliardi di dollari, pari al 98.6% del Prodotto interno lordo del 2010. In aprile, per effetto di una continua crescita del deficit pubblico, i titoli del pubblico Usa sono stati declassati dall'agenzia di rating internazionale Standard & Poor's. Se non si raggiungerà un accordo politico con i repubblicani per una colossale manovra di risanamento, che prevede la riduzione del debito di 4000 miliardi di dollari in tre anni, e se il Congresso Usa, entro il 2 agosto, non autorizzerà un aumento del tetto del debito, fissato oggi a 14.300 miliardi di dollari, gli Usa di fatto saranno al fallimento. La prospettiva del default, esplicitamente richiamata da Obama, è quindi dietro l'angolo.
Gli effetti per l'economia mondiale sarebbero molto simili a quelli che caratterizzarono la sospensione della convertibilità aurea del dollaro nell'agosto 1971, quando il presidente Nixon, allo scopo di garantirsi mano libera per attuare politiche monetarie espansive, non esitò a distruggere l'ordine monetario internazionale stabilito nel 1944 a Bretton Woods fondato sul ruolo del dollaro come unica moneta convertibile in oro (alla parità fissata da Roosevelt di 35 dollari l'oncia).
Come quarant'anni fa anche oggi il dollaro ha un ruolo centrale nel sistema monetario internazionale. Dal punto di vista delle riserve valutarie il dollaro detiene ancora il primato (nel 2010 il 61.5% delle riserve valutarie mondiali sono tenute in divisa Usa, contro il 26.6% in euro). Nonostante l'annunciata diversificazione, gran parte dei surplus commerciali dei paesi emergenti (compresa la Cina) e dei paesi esportatori di petrolio sono detenuti in dollari Usa.
La dichiarazione di default degli Stati Uniti trascinerebbe verso l'abisso il biglietto verde, determinando una sua drastica svalutazione che farebbe di fatto volatilizzare il valore degli asset privati e pubblici denominati nella divisa americana, con un effetto domino sulla stabilità finanziaria internazionale (la Cina è il principale detentore di buoni del Tesoro americano per un valore di 1.145 miliardi di dollari al 31 marzo 2011).
La miopia e la passività dei governi su questo pericolo imminente lascia sconcertati. Ormai non si può più pensare solo al proprio cortile di casa. La crisi del dollaro, attenuata temporaneamente in questi ultimi giorni dalle difficoltà dell'euro, potrà avere effetti devastanti molto più gravi di quelli del 1971. A differenza di oggi, infatti, quarant'anni fa l'economia mondiale non era così integrata e globalizzata.
Dietro la crisi del dollaro, da qualche tempo fa capolino l'oro, il barbarico relitto, per dirla con Keynes, che da alcuni economisti e politici viene evocato come l'unica possibile soluzione di una crisi monetaria internazionale. Un passo in questa direzione è stato già compiuto dall'autorevole presidente della World Bank, Robert Zoellick, che nel novembre del 2010, alla vigilia del Summit del G20 di Seul, ha proposto una vera e propria agenda per istituire un nuovo ordine monetario internazionale fondato sulla centralità dell'oro.
E' probabile che di fronte alla crisi del dollaro, i mercati elaboreranno una propria risposta e autonomamente potrebbero ritornare all'oro come moneta internazionale di riserva e di scambio alternativa al dollaro screditato. Di fatto lo stanno già facendo gli investitori e gli speculatori, impinguendo i loro portafogli del metallo giallo, unico bene rifugio valido in questo momento e spingendo il suo prezzo in una ascesa irresistibile (dal 2002 al 2010, in seguito allo scoppio della bolla speculativa della new economy, il prezzo di mercato dell'oro in dollari si è rivalutato del 349% in termini nominali). Da tempo, infine, molti paesi arabi effettuano le loro transazioni in oro, anche per implicazioni di carattere religioso.
Una volta che i mercati avranno restituito all'oro un uso monetario, i governi saranno costretti a risanare le proprie monete ancorandole in qualche modo al metallo giallo, con la conseguenza di una deflazione generalizzata mondiale, causata dalla scarsità relativa di questo metallo e dal forte squilibrio che caratterizza la distribuzione delle riserve auree mondiali detenute dalle banche centrali (circa il 79% delle riserve è in possesso delle banche centrali di 11 paesi, su 109, la sola Federal Reserve Usa custodisce ben il 26,63% delle riserve auree mondiali).
Per evitare che decida il mercato ancora una volta, deve essere restituito il primato alla politica e alla democrazia. E' tempo di avviare una nuova Bretton Woods, un accordo internazionale diretto alla costituzione di un ordine monetario internazionale. L'intuizione di John Maynard Keynes di una moneta mondiale di natura fiduciaria, emessa da un Banca Mondiale, torna attuale e sembra essere l'unica soluzione politica di questa crisi imminente.
* Dipartimento di econonomia dell'Università di Napoli Federico II


Liberazione 13/07/2011, pag 6

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