mercoledì 3 agosto 2011

«Israele è Medio Oriente se ne convinca e sarà pace»

Paola Caridi, giornalista e storica del Medio Oriente

Vittorio Bonanni
Paola Caridi (1961), giornalista e storica, vive in Medio Oriente e nel mondo arabo dal 2001, prima al Cairo e poi a Gerusalemme, da dove ha seguito giorno per giorno le vicende palestinesi degli ultimi sei anni. E' fondatrice e corrispondente di Lettera22, agenzia di stampa specializzata in politica estera.

Dottoressa Caridi, le rivolte arabe hanno alla fine condizionato lo scenario palestinese. Spinte evidentemente dalla stessa popolazione, le due fazioni palestinesi hanno ritrovato un'unità importante. Lei come commenta questa situazione?
Innanzitutto c'è un elemento che si prende poco in considerazione. E cioè che i palestinesi si sono già rivoltati più volte mentre gli altri arabi stavano fermi, con il risultato che ora sono stati impossibilitati a fare qualche altra cosa. Questo riguarda soprattutto le generazioni più anziane. Ma questo è vero fino ad un certo punto. Il 15 marzo per esempio sia a Ramallah sia a Gaza i ragazzi c'erano, quelli di oggi certamente. E stavano usando le stesse modalità di protesta dei coetanei di piazza Tahir piuttosto che di Tunisi.

Tutto questo non poteva non incidere sulla dimensione politica....
E dunque ha favorito la riconciliazione tra Hamas e Al Fatah, costrette all'accordo anche perché tutte e due deboli in termini di consenso sia a Gaza che in Cisgiordania.

Possiamo dire che c'è un clima diverso, da parte del mondo occidentale, nei confronti del nuovo scenario palestinese, in qualche modo confermato anche dalla dichiarazione di Obama sui confini del '67?
Diciamo piuttosto che ci sono dei segnali positivi: il primo è quello finanziario. Quando Israele il giorno dopo la riconciliazione ha detto di voler bloccare il versamento delle imposte che lo Stato ebraico collazione all'Autorità nazionale palestinese, qualcosa deve essere pur successo tra Washington e Tel Aviv. E poi infatti le imposte sono state versate. Inoltre l'Unione Europea ha riconosciuto di aver sbagliato nel 2006-2007, ammettendo l'errore diplomatico nei confronti delle aperture di Hamas.

A settembre Abu Mazen ha intenzione di proclamare all'Onu lo Stato palestinese. Che cosa succederà in quel momento?
Il tentativo rischia di fallire dal punto di vista formale. Nel senso che gli Usa probabilmente porranno il veto all'interno del Consiglio di Sicurezza il quale ha il compito di chiedere all'Assemblea generale di riconoscere il nuovo Stato. Ma sarebbe anche una dimostrazione di estrema debolezza e certo non migliorerà la situazione. Al contrario la possibilità di un riconoscimento palestinese dal punto di vista dei negoziati cambierebbe, e molto. Nel senso che le colonie sarebbero un contenzioso tra due stati di cui uno ha occupato il territorio di un altro.

Anche i giovani dei quali parlavamo prima chiedono questo riconoscimento?
In realtà no, perché chiedono una legittimazione di quell'identità palestinese che va oltre i confini del '67 e che comprende anche la diaspora palestinese. Quando il premier israeliano Netanyahu dice di fronte al Congresso americano che il problema non è il '67 ma il '48 ha paradossalmente ragione. Lui ha compreso quello che non hanno compreso le diplomazie occidentali. Tutto ciò cambia sicuramente le carte in tavola. Ormai a Ramallah come a Gerusalemme e poi nelle università inglesi ci si sofferma sulla soluzione di un unico Stato israelo-palestinese democratico. Questa opzione è sul tappeto, tanto quanto quella riguardante il riconoscimento dello Stato di Palestina sui confini del '67.

A quest'idea è fin troppo facile pensare che gli israeliani risponderanno: «Volete cancellare lo Stato d'Israele». Come risponde a questa affermazione?
Che bisogna parlare con i ragazzi palestinesi che ragionano con delle cateogorie che sono molto diverse dalle nostre. Salman Natur, scrittore e poeta palestinese che ha circa 60 anni, dice che la sua è stata una generazione di prigionieri in tutti i sensi. I giovani invece hanno un'apertura diversa, non hanno paura di essere contaminati dagli israeliani, dagli occidentali, insomma da chi non è come loro. Questo perché hanno un'identità solida.

Dentro Israele chi crede sia disposto ad ascoltare questi giovani e ad interloquire con loro?
A riguardo c'è una certa consapevolezza dentro lo Stato ebraico ma è estremamente minoritaria. Al contrario esiste una maggioranza silenziosa, imponente, composta da mondi completamente diversi, dagli ortodossi fino alla migrazione laicissima di origine russa, che fa la corsa a prendere quel che può e non ha assolutamente idea di quello che sta succedendo nel mondo arabo.

C'è bisogno dunque di una rivoluzione anche in Israele?
Credo soprattutto che non si possa continuare a pensare ad Israele in termini europei. Quello Stato fa parte del Medio Oriente. Lo si è visto per esempio con l'accordo sul gas con l'Egitto, fatto con il regime di Mubarak a prezzi assolutamente vantaggiosi per Israele. Adesso che quel regime è caduto e quel contratto verrà rinegoziato a prezzi sicuramente più alti per Israele che cosa succederà? E che cosa succederà adesso che Gaza è stata aperta? Israele insomma, come testimonia una pezzo consistente della cultura ebraica - penso ai Sabra e a una parte della cultura sefardita - non è un'isola e fa parte a pieno titolo di quell'area. Il suo vero problema insomma è stata la sua incapacità di pensare a se stesso come parte appunto di quella regione. Ma la realtà è un'altra e tutti dovranno farci i conti prima o poi.
la versione integrale dell'intervista su www.liberazione.it


Liberazione 05/06/2011, pag 5

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Caridi, storica: «Israele è parte del Mo. Questa consapevolezza è necessaria»
Paola Caridi (1961), giornalista e storica, vive in Medio Oriente e nel mondo arabo dal 2001, prima al Cairo e poi a Gerusalemme, da dove ha seguito giorno per giorno le vicende palestinesi degli ultimi sei anni. E’ fondatrice e corrispondente di Lettera22, agenzia di stampa specializzata in politica estera. Collabora, tra gli altri, con l’Espresso e il Sole24 Ore. Recentemente è stata ospite del salone del libro di Torino, dove ha presieduto diversi dibattiti sulla Palestina.

Dottoressa Caridi, sia pure con i tempi dovuti e con modalità specifiche, le rivolte arabe hanno alla fine condizionato lo scenario palestinese. Spinte evidentemente dalla stessa popolazione, le due fazioni palestinesi hanno ritrovato un’unità importante. Lei come commenta questa situazione?
Innanzitutto c’è un elemento che si prende poco in considerazione e che invece i palestinese tendono a sottolineare. Per esempio ci sono voluti decenni agli egiziani per reagire e liberarsi di una dittatura come quella di Mubarak. Lo stesso è successo ai libici, ai siriani, ai tunisini e via dicendo. Ma i palestinesi dal canto loro si sono già rivoltati più volte mentre gli altri arabi stavano fermi. Ci sono state più intifade, c’è stato il 1948, il 1956 che spesso si dimentica, il 1967. Insomma i palestinesi si sono mossi. E queste rivolte precedenti alla grande tempesta del 2011 hanno inciso sulle generazioni di allora, con il risultato che ora, se non sono state bruciate perlomeno sono impossibilitate a fare qualche altra cosa. Sono in galera, sono morti, sono frustrati, ed è stato difficile per loro avere di nuovo un ruolo dentro la società. Si potrebbe dire che ai palestinesi è mancata la materia prima in un certo senso. Questo da una parte. Dall’altra però questo scenario è vero fino ad un certo punto. Il 15 marzo per esempio sia a Ramallah sia a Gaza i ragazzi c’erano, quelli di oggi. E stavano usando le stesse modalità di protesta dei coetanei di piazza Tahir piuttosto che di Tunisi. Cioé resistenza non violenta, sciopero della fame, modi simili insomma a quelli usati dal movimento antiglobalizzazione occidentale.

Tutto questo non poteva non incidere sulla dimensione politica....
E dunque ha favorito la riconciliazione politica tra Hamas e Al Fatah.

In che misura queste rivolte si sono indirizzate, come è normale che sia, contro l’occupazione israeliana, e in che misura contro le due differenti leadership palestinesi?
L’azione dei giovani palestinesi contro l’occupazione israeliana c’è da prima delle rivoluzioni arabe. E continua anche in questi mesi. E questa non è una novità. Il dato nuovo è che questa generazione che è stata protagonista, seppur di nicchia, della resistenza non violenta contro l’occupazione in questi ultimi anni ha avuto anche voce nei confronti della leadership. Per questo ho ricordato il 15 marzo. Fatah e Hamas insomma sono state colpite da questa presenza dei ragazzi palestinesi perché hanno temuto entrambe di pagare lo scotto della non riconciliazione. Insomma si sono messe d’accordo perché tutte e due deboli in termini di consenso sia a Gaza sia in Cisgiordania.

In questo contesto interviene la nuova dirigenza egiziana...
Soprattutto la presenza del ministro degli esteri Nabil Al Arabi, in predicato di diventare segretario generale della Lega araba il prossimo luglio, è stata risolutiva per superare le ultime difficoltà. Ed è vero anche che la questione siriana, cioè il fatto che il regime di Assad non solo sia così instabile ma abbia perso il consenso della popolazione, mette Hamas stessa in una posizione altrettanto debole, quanto quella di Fatah nei confronti degli egiziani. Quindi le due debolezze sono evidenti sia sul piano interno, sia su quello internazionale. Dall’altra parte c’è anche da dire che dietro le quinte della riconciliazione c’è stato il lavoro dei mediatori indipendenti palestinesi, che non è iniziato in concomitanza delle rivoluzioni arabe, ma esiste ed ha lavorato come un fiume carsico da anni. Insomma la riconciliazione non è arrivata come un fulmine a ciel sereno ad ha risolto tutti i problemi del rapporto tra le élites palestinesi, C’è stato un lavorio estenuante se si vuole che è stato compiuto da mediatori interni alla realtà palestinese. E da ultimo, anche se non si dice mai, c’è una presenza della Turchia, che questa volta non si è più scontrata con la leadership egiziana. Il Cairo per anni, dal 2007 in poi, aveva accuratamente evitato che Ankara potesse assumere un ruolo più forte all’interno del mondo palestinese. La caduta di Mubarak e l’allontanamento dal potere di Omar Suleiman ha fatto sì che la Turchia non fosse più percepita come un competitor dall’Egitto, semmai come un partner con il quale lavorare per la riconciliazione palestinese, ognuno con le proprie funzioni. Con la Turchia che sta assumendo sempre più, e lo si è visto nelle ultime settimane con la riunione a Mosca e l’incontro di Ankara, una funzione determinante sulla leadership di Hamas per ottenere qualcosa in termini di moderazione pragmatica al fine di spingere in particolare l’Ue a non essere del tutto contro la riconciliazione palestinese come lo sono stati gli Stati Uniti in questo ultimo periodo.

Possiamo dire che c’è un clima diverso, da parte del mondo occidentale, nei confronti dell’universo palestinese, in qualche modo confermato anche dalla dichiarazione di Obama sui confini del 1967?
Diciamo piuttosto che ci sono dei segnali positivi: il primo è quello finanziario. Quando Israele il giorno dopo la riconciliazione ha detto di voler bloccare il versamento delle imposte che collazione Israele all’Autorità nazionale palestinese, qualcosa deve essere pur successo tra Washington e Tel Aviv. E poi infatti le imposte sono state versate. L’Unione Europea negli scorsi anni, soprattutto attraverso i diplomatici, ha fatto sapere ad alcuni di noi che eravano nell’area, che erano consapevoli di aver sbagliato nel 2006-2007. Riconoscevano l’errore diplomatico nei confronti delle aperture di Hamas. A questo punto l’Ue sta cercando una via d’uscita nel senso di trovare il modo di non isolare Hamas. Nello stesso tempo sta a guardare quello che succederà alla leadership di Gaza perché bisogna anche pensare che probabilmente Damasco non rimarrà come sede di Hamas all’estero. Dunque a secondo di quello che succederà lì all’estero si muoveranno di conseguenza.

A settembre Abu Mazen ha intenzione di proclamare all’Onu lo Stato palestinese. Che cosa succederà in quel momento? Chi lo riconoscerà? Servirà alla causa palestinese un atto del genere?
Il tentativo rischia di fallire dal punto di vista formale. Nel senso che deve essere una raccomandazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che chiede all’Assemblea generale, che ha già dato il suo ok al riconoscimento di questo Stato, di riconoscere la Palestina. Dal punto di vista sostanziale la questione è diversa: nel senso che se è vero che gli Usa hanno il potere di veto, è vero anche che sarebbe una dimostrazione di estrema debolezza ed anche molto rischioso agire in questo modo. Probabilmente lo faranno ma questo certo non migliorerà la situazione. Al contrario la possibilità di un riconoscimento palestinese dal punto di vista dei negoziati cambierebbe le carte. Ci sarebbero due stati sul piede di parità formale. E questo cambia i negoziati, nel senso che le colonie sarebbero un contenzioso tra due stati di cui uno ha occupato il territorio di un altro. E vi sarebbero inoltre dei confini certi.

Anche i giovani dei quali parlavamo prima chiedono questo riconoscimento?
In realtà no, perché chiedono un riconoscimento di quell’identità palestinese che va oltre i confini del ’67 e che comprende anche la diaspora palestinese. Quando il premier israeliano Netanyahu dice di fronte al Congresso americano che il problema non è il '67 ma il '48 ha paradossalmente ragione. Lui ha compreso quello che non hanno compreso le diplomazie occidentali. Tutto ciò cambia sicuramente le carte in tavola. La discussione che c’è stata a Torino è stata identica a quelle che ci sono state tra Ramallah, Gerusalemme e poi per esempio le università inglesi, dove ci si sofferma sulla soluzione di un unico Stato israelo-palestinese democratico. Questa opzione è sul tappeto, tanto quanto quella riguardante il riconoscimento dello Stato di Palestina sui confini del 1967.

A quest’idea è fin troppo facile pensare che gli israeliani risponderanno: «Volete cancellare lo Stato d’Israele». Lei come risponde a questa affermazione?
Che bisogna parlare con i ragazzi palestinesi che ragionano con delle cateogorie che sono molto diverse dalle nostre. Salman Natur, scrittore e poeta palestinese che ha circa 60 anni, dice che la sua è stata una generazione di prigionieri in tutti i sensi. I giovani invece hanno un’apertura diversa, non hanno paura di essere contaminati dagli israeliani, dagli occidentali, insomma da chi non è come loro. Questo perché hanno un’identità solida. Insomma quelle categorie interpretative che abbiamo usato fino adesso, noi analisti da un lato e i palestinesi più anziani dall’altro, hanno fatto il loro tempo.

Dentro Israele chi crede sia disposto ad ascoltare questi giovani e ad interloquire con loro?
A riguardo c’è una certa consapevolezza dentro lo Stato ebraico ma è estremamente minoritaria. E comprende anche in questo caso una generazione di giovani ed alcuni della generazione dei 40-50enni. Una parte del vecchio fronte pacifista. Ma sono comunque soprattutto i ragazzi ad averla. C’è poi una fetta di società che non è stata analizzata spesso ma che invece meriterebbe più attenzione, laica, magari delusa dalla sinistra, che ha paura che Israele scompaia. E infine c’è questa maggioranza silenziosa, imponente, che mette assieme mondi completamente diversi come quello degli ortodossi, dei coloni new age, assieme alla migrazione laicissima di origine russa e alla media borghesia anch’essa laica, che fa la corsa a prendere quel che si può e non ha assolutamente idea di quello che sta succedendo nel mondo arabo. Si tratta dunque di un pezzo di società autoreferenziale, che non ha nessuna visione realistica di quello che potrebbe succedere a Israele.

C’è bisogno dunque di una rivoluzione anche in Israele?
Credo che non si possa continuare a pensare ad Israele in termini europei. Israele fa parte del Medio Oriente. E questa cosa che non è compresa da noi europei, non è compresa neanche da una grande parte della società israeliana. Ma Israele è dentro il Medio Oriente. Lo si è visto per esempio con l’accordo sul gas con l’Egitto. Fatto con il regime di Mubarak a prezzi assolutamente fuori mercato e vantaggiosi per Israele. Adesso che quel regime è caduto e quel contratto verrà rinegoziato a prezzi sicuramente più alti per Israele che cosa succederà? E che cosa succederà adesso che Gaza è stata aperta? Israele insomma, come testimonia una pezzo consistente della cultura ebraica - penso ai Sabra e a una parte della cultura sefardita - non è un’isola e fa parte a pieno titolo di quell’area. Il suo vero problema insomma è stata la sua incapacità di pensare a se stesso come parte appunto di quella regione. Anche la parte che viene dalla Russia vorrebbe tanto creare un pezzo di Europa in Medio Oriente. Ma la realtà è un’altra e tutti dovranno farci i conti prima o poi.

Vittorio Bonanni
in data:04/06/2011

http://www.liberazione.it/news-file/Intervista-a-Paola-Caridi---LIBERAZIONE-IT.htm

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